Se sui libri di scuola il Risorgimento fosse stato raccontato in altro modo, forse certi errori del passato non si sarebbero ripetuti e l’Italia non sarebbe in questa difficile situazione economica. L’opinione è del giornalista parlamentare Vittorio Bruno, ex direttore del “Secolo XIX”, e costituisce in qualche modo la sintesi e la ragion d’essere del suo ultimo libro:
Per affari e per amore, edito da Rizzoli, e che porta come sommario la dicitura: «Gli italiani e le assicurazioni, dal Risorgimento a oggi» (pagine 232, euro 22,00). Una prospettiva di lettura storico-divulgativa molto particolare (il libro è ispirato dall’Associazione italiana delle assicurazioni), che Bruno sfrutta come un pretesto per puntare al suo obiettivo: «Se da una parte è vero che gli italiani, soprattutto a Milano e Venezia, cacciarono gli austriaci per amore della libertà e per dare spazio a un’economia soffocata dal regime asburgico, dall’altra non bisogna dimenticare che Cavour, statista e uomo d’affari, era in costante e affannosa ricerca di denaro, poiché il Regno di Sardegna era indebitato fino ai capelli. Debiti che sono aumentati col Regno d’Italia e che ci hanno inseguito in questo secolo e mezzo di storia».
E lei pensa che se i libri di scuola avessero raccontato questa verità...«Intanto avrebbero detto qualche bugia in meno e poi penso che sarebbe stato formativo crescere i nostri giovani nella consapevolezza che siamo un Paese nato povero e cresciuto povero. Costruito facendo debiti, perché per fare l’Italia non c’erano i soldi e il <+corsivo_bandiera>gap <+tondo_bandiera>ha condizionato tutta la nostra storia. Per fare l’esempio di una pagina “gloriosa”, per mandare i soldati in Crimea Cavour si è indebitato pesantemente con gli inglesi».
Formativo perché?«Forse, a cominciare dalla mia generazione per finire ai nostri giovani, avremmo compreso, tanto per cominciare, la necessità di scegliere rappresentanti politici e governanti capaci di dar vita a un’economia efficiente nei fatti, capace di sviluppo reale, non solo in quanto trainata dall’accensione di ulteriori debiti. E pensare che questa deriva era prevista dai nostri politici già alla fine degli anni ’60».
Ha un ricordo preciso a riguardo?«In piena
austerity Adolfo Sarti, più volte sottosegretario e ministro, mi disse: “Vittorio, abbiamo fatto mille errori nel costruire questo Paese, a cominciare dallo sbarco dei mille: non quello di Marsala, ma quello dei mille parlamentari a Roma”. Secondo lui era evidente che un così alto numero di parlamentari moltiplicava nei fatti gli input di spesa contribuendo fortemente a esasperare l’indebitamento».
L’abbiamo sempre sfangata, perché non dovrebbe accadere anche adesso?«Nel 1849, quando Venezia era l’unica città italiana capace di resistere alla restaurazione austriaca dopo i moti del ’48, i generali asburgici, irritati per la mancata riconquista, decidono di fabbricare a Treviso centocinquanta palloni aerostatici per dare alle fiamme Venezia con bombe incendiarie. I palloni partono, ma quando arrivano sopra la laguna si alza la bora che li disperde e li spinge lontanissimi dall’obiettivo. Ecco, in questo momento servirebbe un simile colpo di fortuna».
Se tutti gli italiani pagassero le tasse non saremmo in questa situazione, ma lei racconta che anche questo problema era stato previsto.«Sì. E proprio da Ezio Vanoni, il padre della riforma fiscale. Quando mise mani alla riforma, impostando il fisco più sulle imposte dirette che su quelle indirette (gli ingenti debiti richiedevano soldi freschi e sicuri, senza dover attendere gli scambi commerciali), non mancò di ricordare che in questo modo il rapporto di sfiducia che si era creato nei secoli fra Stato e cittadini avrebbe portato a una evasione fiscale tale che negli anni non avrebbe consentito di sanare il problema del debito pubblico. Per rendere plastico il concetto fece l’esempio della giostra del saracino: il cavaliere (cittadino) tocca e fugge mentre il saracino (Stato) tenta di colpirlo».
Le profezie erano esplicite, è mancata la visione di prospettiva?«Credo sia mancata proprio la coscienza dei nostri storici errori. All’inizio degli anni ’50 Vittorio Valletta, tornato a capo di una Fiat che sta pianificando il lancio delle mini utilitarie, viene ascoltato in Parlamento. Lui espone le sue strategie e chiede le necessarie infrastrutture per aprire il mercato alle automobili. Sottolinea l’incongruenza di costruire grandi palazzi nelle periferie cittadine senza prevedere garage e parcheggi. La risposta fu: “Dovremmo costringere i palazzinari a rifare i progetti, ma non c’è tempo e non c’è denaro”».
Lei racconta anche di un Fanfani...«...che negli anni ’60, sconvolto dalle stragi che si cominciavano ad avere sulle strade, pensa di alleggerire il traffico spostando le merci su rotaia. Convoca i rappresentanti delle ferrovie che si dicono pronti, ma chiedono risorse per i necessari investimenti: denari che però non arrivano mai».
Colpa dei debiti. Eppure un tempo gli italiani primeggiavano nella finanza. Nel suo libro ci sono gustosi aneddoti a riguardo.«Per esempio, le assicurazioni sono state inventate da un mercante di Prato, Francesco Datini, quattrocento anni prima che nascessero i Lloyd’s londinesi. Lo stesso Datini ha inventato il leasing: vendeva armi agli eserciti in procinto di entrare in guerra e le ricomprava a guerra finita per rivenderle all’occasione successiva. Filippo II di Spagna era legato con i genovesi che avevano il monopolio delle assicurazioni dei suoi galeoni, che carichi di argento del Sudamerica erano preda delle navi da corsa inglesi. Andò peggio ai Bardi, banchieri fiorentini, messi sul lastrico nel 1343 dalla corona inglese che, fortemente indebitata con loro, decise unilateralmente di non onorare gli impegni. Così a inizio ’700, lo scrittore Daniel Defoe annotava: «Ho scoperto che gli inglesi sono solo dei plagiatori perché tutto quello che c’era da inventare in fatto di affari, mutue, banche e assicurazioni, gli italiani lo avevano inventato da un pezzo».