Per 13 anni è stato a capo della diplomazia vaticana. Dal 2007 è l’uomo che tesse il dialogo con l’islam. «Il problema nel mondo musulmano d’oggi – spiega il cardinale Jean-Louis Tauran, oggi presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso – sta nel far accettare alla base le aperture che si registrano fra i leader più illuminati ». Ma la violenza e i conflitti «possono e debbono essere superati e una delle chiavi della convivenza è nella scuola ». Questo, sostiene, è il messaggio più importante lasciato da Papa Benedetto XVI in Terra Santa.
Fra i tanti temi toccati dal Papa, quali sono quelli destinati a lasciare più conseguenze? «Credo che il viaggio sia stato importante non solo per il dialogo coi musulmani ma soprattutto per quello ecumenico, per la riconciliazione fra i cristiani. Le divisioni che si toccano con mano entrando nella basilica del Santo Sepolcro sono una pugnalata al cuore, rappresentano qualcosa che ferisce e non sono una fatalità. La violenza e i conflitti possono e devono essere superati: questo è il messaggio più importante lasciato dal Papa».
Lei si è occupato a lungo dello Statuto speciale internazionalmente garantito per i Luoghi santi di Gerusalemme e dintorni. Pensa che sia ancora una soluzione possibile?«Non solo è possibile, ma direi che è l’unica soluzione che può garantire la pace in Terra Santa: perché non ci sarà pace se il problema dei Luoghi Santi non viene adeguatamente risolto. La Santa Sede ha sempre appoggiato l’ipotesi di uno Statuto speciale internazionalmente garantito, dunque non modificabile unilateralmente, per la parte della Città santa 'intra muros', come viene indicata nelle bozze delle quali si è a lungo discusso. Non abbiamo mai inteso accennare alla sovranità politica e territoriale che spetta alle autorità civili israeliane e palestinesi stabilire, ma auspichiamo che la comunità internazionale si faccia garante del carattere unico e sacro di questa parte della città, indipendentemente da ciò che avverrà sul piano politico, che rimane un problema bilaterale».
Lei ha definito il conflitto mediorientale «la madre di tutte le guerre », cessato il quale si sarebbe aperta una fase di progresso e sviluppo per l’intera regione. Lo vede ancora così?«Certamente. Anzi, direi che oggi questa convinzione è più viva che mai. Pensiamo a cosa sarebbe il Medio Oriente senza la guerra, a quanto benessere e prosperità si diffonderebbe per tutti i popoli della regione se tutto il denaro che viene oggi speso per la lotta armata fosse invece investito in infrastrutture, scuole, creazione di posti di lavoro, eccetera… Ci sarebbe fiducia fra le persone, condivisione di risorse, di tecnologia, di cultura».
Che prospettive vede oggi per il processo di pace? «Da quanto si apprende dai media, sono due gli aspetti positivi che oggi si possono riscontrare: il fatto che tutti parlino di due Stati e che Abu Mazen abbia dichiarato che la società palestinese ha scelto la strada del dialogo e della trattativa. Meno confortante è la presenza di questo Muro che ci ha tanto impressionato e la mancanza di fiducia che si registra fra israeliani e palestinesi. D’altra parte, però, sappiamo che non si può passare dalla guerra alla pace dall’oggi al domani. Quel che veramente addolora in questa crisi è percepire la paura dell’altro e constatare che non si riesce a risolvere un problema di giustizia internazionale: due popoli che hanno diritto a due Stati, con la stessa dignità, la stessa sovranità e la stessa libertà. Di fronte a questi principi abbiamo spesso richiamato le responsabilità della comunità internazionale, le risoluzioni dell’Onu mai rispettate, e sottolineato come la violenza abbia prevalso sul diritto».
Con il discorso al Cairo, il presidente Barak Obama ha suscitato grandi aspettative. «Tutti danno credito al presidente Obama, che certamente con questo discorso ha creato un clima più sereno e aperto. Si è rivolto a tutti i musulmani, e ha voluto precisare a tutti che non dobbiamo avere paura della religione musulmana. Ha parlato della sofferenza dei due popoli e ha nuovamente chiesto di fermare le colonie. A tal proposito va rilevato che non è chiaro se intendeva lo smantellamento di tutti gli insediamenti o il congelamento delle costruzioni esistenti. Bisognerà vedere quali iniziative concrete intraprenderà, perché parlando con israeliani e palestinesi abbiamo percepito quanto la gente sia stanca di discorsi, promesse e conferenze internazionali: tutti vogliono fatti».
La Santa Sede ha sollecitato più volte il coinvolgimento internazionale. Ma ormai anche le opinioni pubbliche occidentali si chiedono con una certa stanchezza perché malgrado proclami, bozze di accordo e mappe possibili, di questa «Guerra dei cent’anni» non si veda ancora la fine… «Credo che dipenda dal fatto che per troppi anni la violenza ha prevalso sul diritto, oscurando la ragione e rendendo impossibile il dialogo. Inoltre la comunità internazionale è rimasta passiva: forse soprattutto all’inizio, nel dopoguerra, non è stata sufficientemente coinvolta nella creazione di uno Stato palestinese. E poi non si può negare che il ricorso agli attentati ha creato un meccanismo perverso di violenza e rappresaglie che ha portato alla sordità totale delle ragioni dell’altro. E la guerra, come disse Giovanni Paolo II, è sempre una sconfitta dell’umanità. Eppure la comunità internazionale, ed in particolare i responsabili delle nazioni, mai come oggi dispongono di un corpus di strumenti giuridici così completo per poter dirimere le controversie senza dover ricorrere alla guerra: basterebbe semplicemente applicare il diritto».
Dunque manca la volontà politica? «Certamente. Ed è lì che il dialogo interreligioso può fare molto, senza per questo diventare politicizzato».
Gli intellettuali islamici riformisti riconoscono che finora alla storia dell’islam è mancato l’Illuminismo, con il riconoscimento della libertà di coscienza e l’applicazione del metodo storico-critico anche alle Sacre Scritture. Con quali conseguenze nel dialogo? «Innanzitutto va riconosciuto che, prima ancora dell’Illuminismo, è stato il cristianesimo a dare all’essere umano la nozione di persona umana e libera e a riconoscere la libertà di coscienza: per i cristiani la preghiera è dialogo con Dio, è conversazione, mentre per i musulmani, come indica la stessa parola 'islam', la preghiera corrisponde ad un atto di 'sottomissione'. Nell’islam, il concetto della paternità di Dio, di Dio-padre, è assente».
Negli incontri con i leader musulmani che riscontro avete sulla libertà di cambiare religione? «Una parte dei musulmani accetta, più o meno, questi principi. La cosa difficile è far accettare alla base questa apertura che, invece, esiste nei leader più illuminati. Questo è il grande problema e quindi pensiamo che bisogna investire sulle scuole perché è l’ignoranza a generare la paura. Una volta una suora, che tuttora lavora in una scuola del Cairo mi ha detto: 'Vede, in vari quartieri abbiamo una moschea, una chiesa e una scuola. Il futuro è nella scuola'. E l’esempio, come si è visto, è proprio nel Libano: nella convivenza che ha saputo creare attraverso la scuola e l’università. Un segnale di speranza è rappresentato dal fatto che negli ultimi anni, diverse scuole cattoliche sono state aperte nei Paesi del Golfo, non più solo in Medio Oriente, e i risultati si vedono. Di recente un diplomatico della Penisola arabica mi ha detto: 'Tutto quello che so lo devo alla scuola cattolica che ho frequentato fin da bambino, dove sono stato sempre rispettato e mai fatto oggetto di proselitismo'. Un gran bel complimento».