La mappa dell'isola di Utopia immaginata da Thomas More
Thomas More la descrive come un’isola, ma non per questo ci si può illudere che Utopia sia del tutto al riparo dal coronavirus. «Come si regolerebbero gli utopiani se la pandemia arrivasse dalle loro parti? Probabilmente in modo non troppo diverso da come abbiamo fatto noi», afferma Roberto Mordacci, professore di Filosofia morale e Filosofia della storia all’Università Vita– Salute San Raffaele di Milano e direttore del Research Centre for European Culture and Politics. «Per fermare il contagio chiuderebbero quello che è possibile chiudere – prosegue –, decidendo poi di riaprire nel momento in cui la situazione minacciasse di diventare insostenibile dal punto di vista sociale. Si regolerebbero come noi, ripeto, ma con una differenza fondamentale: la loro Fase 2 sarebbe un progetto ben riconoscibile, ricco di immaginazione e nello stesso tempo ragionevole, concreto». Ritorno a Utopia (Laterza, pagine X+146, 16,00) è il titolo del libro più recente di Mordacci, una ricerca che riprende molti elementi del precedente La condizione neomoderna, uscito da Einaudi nel 2017: «Come il postmoderno aveva cercato di persuaderci che nulla di nuovo poteva ormai accadere – sottolinea lo studioso –, oggi la cosiddetta retrotopia vorrebbe indurci a rimpiangere un passato fantomatico. Ma non è di questo che abbiamo bisogno».
Di che cosa, allora?
Di un pensiero critico sul presente che si traduca in visione alternativa del futuro. Sono le caratteristiche dell’utopia così come le delinea More nel suo celebre del libro del 1516, troppo spesso frainteso oppure citato impropriamente. A mio avviso, per affrontare seriamente l’emergenza di queste settimane occorrerebbe riscoprire lo spirito autentico di quell’opera.
La nostra epoca, però, sembra più incline alla distopia.
È del tutto comprensibile che, davanti al dilagare del Covid–19 e alle severe misure di confinamento prese per scongiurare il peggio, in molti si siano inizialmente risvegliate le paure su cui si basa tanta letteratura distopica: l’isolamento fisico, la limitazione dei diritti, la negazione della libertà. Ma adesso che queste preoccupazioni si stanno attenuando, il pericolo da evitare è la riproposizione del passato come modello a cui fare precipitosamente ritorno. Non possiamo accontentarci di una società uguale a quella che abbiamo conosciuto fin qui, magari ancor più liberista o autoritaria rispetto a qualche mese fa. Dobbiamo costruire una società migliore.
A questo serve l’utopia?
Esattamente. Nel pensiero politico agiscono tre grandi tradizioni: il realismo di Machiavelli, che muove da una riflessione sul potere; l’analisi filosofica di Hobbes, che si concentra sulla natura umana; l’utopia di More, che insiste sull’immaginazione di ciò che è buono e giusto. Al centro, secondo quest’ultima prospettiva, non sta più l’umanità in sé, né il mero realismo, ma il lavoro che ciascun essere umano può compiere sulla realtà politica. Nell’impostazione umanistica di More questa capacità immaginativa non ha nulla di velleitario né tan- to meno di arbitrariamente fantasioso. È semmai una conseguenza dell’intima dignità che, secondo Pico della Mirandola, appartiene a ogni essere umano.
Mi scusi, ma stiamo parlando del XV secolo…
No, stiamo parlando di un’eredità che è sempre rimasta viva nel tempo e che proprio oggi potrebbe dare un contributo fondamentale. More non pretende di fondare una società ideale sulla base di princìpi astratti. Al contrario, si sforza di immaginare una società giusta e ne identifica i princìpi in una maniera che può apparire istintiva, ma che in effetti sottintende un metodo di estrema concretezza e piena ragionevolezza.
Utile anche in epoca di pandemia?
Lo conferma il fatto che, come accennavo all’inizio, i provvedimenti che abbiamo adottato durante l’emergenza non si discostano troppo da quelli che, in ipotesi, si potrebbero prendere sull’isola di More. Ci siamo attenuti a criteri di opportunità e responsabilità che ci hanno suggerito di non prolungare il lockdown oltre la soglia di insostenibilità sociale. Certo, riaperture e riprese comportano un rischio del quale siamo consapevoli. Ma è un rischio che, se inserito in un progetto, non mortifica affatto la speranza. Anzi, la alimenta.
Quali obiettivi dovremmo darci?
Una maggior attenzione ai bisogni comunitari, in primo luogo. Tornare a lavorare è urgente, d’accordo, ma proprio per questo il lavoro non può più essere subordinato unicamente al profitto, altrimenti non faremmo altro che differire l’esplosione di una conflittualità sociale già latente prima della crisi. È necessario ragionare in termini di dignità e di inclusione, anche proponendo un meccanismo di sostegno al reddito che vado al di là dell’emergenza immediata. In generale, l’immaginazione del futuro non può fare meno di recepire quanto la pandemia ha portato allo scoperto, in negativo come in positivo. Si delineano nuove povertà, è vero, ma in queste settimane ci siamo resi conto che in settori cruciali quali l’educazione e il lavoro si possono riproporre su ampia scala soluzioni innovative come lo smart working e la didattica a distanza.
A chi spetta l’iniziativa?
Questo è un punto molto delicato. La mia impressione è che, pur comportandosi più o meno come noi, gli utopiani sarebbero riusciti a escogitare un modo di deliberare molto più ordinato e coordinato. Di sicuro, in questo frangente l’Europa è chiamata a essere protagonista di quella che potremmo chiamare, appunto, “neomodernità” oppure “anterotopia”, nel senso di immaginazione di qualcosa che ci precede, che ancora non è accaduto e che quindi può ancora essere plasmato. Un esempio pratico: che ne sarà nei prossimi mesi del Green New Deal dell’Unione Europea? Possiamo prevedere che una parte delle risorse destinate alla tutela dell’ambiente vengano impiegate diversamente, ma questo non deve far venir meno lo sguardo d’insieme, la dimensione progettuale o, meglio ancora, la spinta vitale dell’utopia.