«Piuttosto mi ammazzano ma non mi toccano, e questo mi fa stare tranquilla». Crudele constatazione, eppure una consolazione per una giovane donna che, nel giro di poche ore, lo scorso aprile si trovò in mano ai miliziani di Jabhat al-Nusra, i fondamentalisti di al-Qaeda penetrati come una piovra nella rivolta siriana.Un’agonia, psicologica e culturale, consegnata a un fresco diario intimo che – indulgendo un poco al memorialistico e con alcune ingenuità stilistiche – ha il valore di un inedito reportage. Susan Dabbous, giovane reporter free-lance italo siriana colaboratrice di
Avvenire e ora autrice di
Come vuoi morire? (Castelvecchi, pp. 188, euro 18,50) era l’unica donna il 3 aprile dell’anno scorso a Ghassanieh, un villaggio cristiano a pochi km dalla Turchia, assieme a tre colleghi italiani. Una missione nella terra di nessuno, ma mentre gli obiettivi riprendono lo scempio della chiesa di San Simeone lo Stilita, 8 giovani miliziani armati e vestiti di nero compaiono sullo sfondo.Iniziano le domande e le perquisizioni di macchine fotografiche e telecamere. La richiesta del capo dei guerriglieri – Sheikh il nome nel diario – di seguirli alla base per cancellare i file si rivela in pochi minuti per quello che tutti temono: un sequestro. Quando, il giorno dopo, andranno a vuoto gli appuntamenti telefonici con l’Italia, la notizia sarà di dominio pubblico: 4 giornalisti italiani in mano ai fondamentalisti legati ad al-Qaeda che da mesi spadroneggiano in alcune aree della Siria in mano all’opposizione.Cronistoria accuratissima, scandita giorno per giorno, anche grazie agli appunti presi di nascosto sul quadernetto chiesto per copiare in arabo le preghiere: pensieri, stati d’animo, l’angoscia opprimente fino alla più cupa disperazione sono dipinti insieme allo squallore della palazzina a tre piani dei guerriglieri, del fetido stanzino dove come unica donna Susan è subito segregata. Terrore che presto sconfina nella violenza psicologica: una sudicia coperta diventa burqa per coprirsi agli occhi di invasati sostenitori del
jihad. Ogni movimento un potenziale pericolo da mortificare per una ragazza nata in Siria ma cresciuta, agli occhi del capo di quella pattuglia di fondamentalisti, tradendo l’islam.È il dialogo con Miriam, la moglie del miliziano a cui è consegnata dopo un paio di giorni, il vero capolavoro di questo involontario reportage dal fronte siriano. Una villetta, riparo più adatto a una donna, e una compagnia femminile: la jihadista, giovanissima sposa giunta apposta dalla Tunisia per servire il marito
mujaheddin e la giornalista occidentalizzata giunta con illuministica passione a documentare la tragedia del suo Paese natale.Solidarietà femminile, quasi un senso di complicità e certo di protezione, mentre Susan chiede, nello scorrere di interminabili giornate, di essere introdotta alle 5 preghiere al giorno precedute dalle abluzioni. Una docile sottomissione, ma frutto dello stesso terrore. Qualche giorno di sereni bucati e confezionando cibi con ricette tunisine ma come squassati ogni volta dall’arrivo impetuoso del marito
mujaheddin che Susan non deve mai incontrare. Il
jihad costringe anche Miriam a vegliare nella notte interrotta non solo dalla sirena per la preghiera, ma anche dalle bombe che cadono a pochi metri, confidando nella cieca volontà di un Dio.Poi la domanda, rivelazione di un fanatico indottrinamento: «Susan, qual è la tua morte preferita? Io sogno di morire o durante la preghiera o leggendo il Corano». Fede cieca nel paradiso islamico e odio verso l’Occidente peccatore da cui la prigioniera si deve redimere. Contraddire non è possibile, l’assimilazione silenziosa l’unica possibilità di sottomessa sopravvivenza.Un incubo sottile, mentre plateale è il tradimento di Miriam: il quadernetto avuto per trascrivere le preghiere, ma con gli appunti segreti, è messo in mano al capo dei guerriglieri. Il
jihad, dovere supremo, più alto della solidarietà femminile. Un aspro interrogatorio e per una notte il pensiero ossessivo della morte: «Mi taglieranno le mani?». Poi, dopo un ultimo giorno ancora nella fetida base dei guerriglieri, la liberazione il 14 aprile 2013. Quella corsa in pulmino non è verso un altro nascondiglio o per essere venduti a nuovi carcerieri, ma alla frontiera turca. Si apre lo sportello del furgoncino. L’angoscia, a poco a poco si dissolve, non il ricordo della dolce Miriam, l’amica del
jihad.