lunedì 8 settembre 2014
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Edificare una città mette in moto le forme primarie dell’immaginazione. Forme e materie interagiscono, in modo variabile, dinamico. Mai in modo assoluto, incontaminabile dall’usura del tempo.Ecco perché la Gerusalemme celeste di san Giovanni, fatta di pietra preziosa splendente come il diaspro cristallino, con la piazza d’«oro puro simile a vetro puro», e la luce eterna, è un unicum. L’aria solida del cristallo trasparente fa pensare al divino; alla forma perfetta, per le geometrie e le proporzioni delle sfaccettature poligonali e simmetriche. Ispira l’attrazione tra scienza e metafisica, negli architetti delle città ideali di Pienza, Urbino, Sabbioneta, Palmanova, Grammichele. È una fantasia «edificante», poiché il cristallo non si espande, ma costruisce, e si dispone all’insegna della perfezione, anche all’interno di microcosmi quali i geodi. Eppure cambia di colpo nelle sostanze del ghiaccio e della neve, che instaurano la dimensione sospesa del sogno.Nel suo viaggio sorprendente (Forme e materiali della città fantastica, Franco Angeli, pp. 222, euro 29, un tassello delle attività del Laboratorio di Ricerca sulle Città diretto da Raffaele Milani all’Università di Bologna), Laura Falqui insegue le fantasie urbane soltanto nelle parole della letteratura. Drammaturga, ora narratrice di vena filosofico-fantastica, saggista con competenze di pittura dell’800 inglese (in particolare dei Preraffaelliti) e di cinema, accompagna comunque le descrizioni letterarie con i riflessi nelle arti e nella musica.Da questo bel libro, non aspettatevi qualcosa di enciclopedico – sebbene lo sia la vastità degli esempi – né un ordine cronologico, ma una fondata struttura dell’immaginazione in sei parti, che il saggio introduttivo chiarisce bene: Città cristalline e minerali, Città circolari, Città ortogonali, Città labirintiche, Città metamorfiche, Arborescenze. Ogni capitolo nasce da un succoso discorso, che imposta una trama di confronti tra gli archetipi e i loro sviluppi. Ma nulla vieta che una città sia insieme labirintica e metamorfica, e magari arborescente, o che le analogie si compongano a dispetto delle lontananze tra gli autori.Il percorso del viaggio è imprevedibile. Le Città cristalline e minerali, che aprono il libro, appartengono all’immaginazione finale della Città celeste. Le Arborescenze, che lo concludono, accompagnano i miti del Paradiso terrestre e dell’Età dell’oro, che sono all’origine di ogni civiltà. Fine e inizio sembrano rovesciarsi. In realtà, in quella dimensione del presente che è l’anima, fine e inizio sono simultanei, nascono dallo stesso desiderio di felicità e di bellezza. L’escaton, il destino finale, l’«oltre», è giustamente all’inizio.Tra le Città cristalline troviamo le veggenti architetture di vetro di Paul Scheebart – ciò che consente digressioni sull’attualità dell’inquinamento luminoso e altre invasività; la natura che crea città minerali in Tolkien; le simmetrie aliene di Lovecraft; i frammenti inafferrabili di Chlébnikov: «Palazzi-pagine, palazzi-libri,/.../ la città tutta è un foglio di finestre-specchi». Non immagineremmo qui anche un sogno di Baudelaire: un palazzo-città che splende di luce propria, dove il nero è cristallino.Una città circolare poco nota è Heliopolis di Ernst Junger (1972). In una città marina, dove si congiungono Atlandide e le città solari del Mediterraneo, il Potere oscuro ha prodotto un mostro affascinante, la cui tecnologia si sposa con un’estetica che gronda sangue. Sopra la città vecchia, dall’humus rugginoso dovuto ai grandi incendi, si leva l’architettura dell’Ufficio centrale che allunga i tentacoli. Lucius, il protagonista, è l’«anarca» che cerca di salvare la comunità dei Parsi e se stesso, ma come Junger durante il nazismo, ritiene necessari il dolore, il peccato, il sacrificio, dalla cui esperienza «in sé» viene la bellezza. Il bene non si acquista con la conoscenza, come la Gerusalemme di cristallo: «Le audaci escursioni dello spirito... diventeranno portatrici solo quando l’esperienza le confermerà... le città non debbono essere assolute, debbono essere un’immagine. La pietra preziosa appartiene alla corona, non alla base».Vorrei ricordare, tra le città metamorfiche, La città perduta di Marte dell’ironico Ray Bradbury (1967). Sembra viva, indovina i desideri umani, i suoi tetti si aprono come petali di fiore, le finestre occhi palpebre benevole, i marciapiedi come fiumi scintillanti lambiscono i piedi, macchine riparano macchine, che riparano macchine. D’improvviso un fremito, il cielo si incurva, le palpebre si richiudono. Un solo uomo scampa, torna con sollievo alle città abbastanza piccole da essere governate soltanto dagli uomini.Sia Heliopolis, sia la città di Marte, sono due sogni deviati e perversi. L’uno, radicato nel male, è stato già realizzato, e sarà sempre in agguato. Ma non scomparirà nemmeno l’illusione che la tecnologia sostituisca l’uomo: ne limita anima e desiderio, lo fa schiavo e lo reclude, nel suo smisurato ventre artificiale.
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