giovedì 12 febbraio 2015
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Lo sguardo di Michele Montagano, classe 1921, si ferma davanti alla fotografia dei suoi giovani compagni internati militari in Germania. «Eravamo così giovani, pieni di speranze e di sogni, di voglia di vivere» riflette l’anziano reduce. Poi ricorda: «L’8 settembre 1943 ero ufficiale del Regio esercito italiano, in forza alla Guardia alla frontiera e prestavo servizio in Slovenia. All’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, su ordine del Comando, con il mio reparto iniziai una faticosa marcia, ma fummo catturati dai tedeschi a Gradisca d’Isonzo e trasportati a Villa Opicina».Dopo la firma dell’armistizio da parte di Badoglio gli ex alleati tedeschi chiedevano apertamente agli italiani se volevano continuare la guerra a fianco della  Germania. «Noi, pur giovani e con tanta voglia di rivedere l’Italia e le nostre famiglie – prosegue Montagano – gettammo in faccia al nemico il primo dei tanti no! Fu così che venni portato nel campo di Thorn e immatricolato con il n. 29750. Chiusi nei lager nazisti, in un primo tempo fummo prigionieri di guerra. Poi, l’1° ottobre 1943 siamo stati definiti “Imi” con provvedimento arbitrario di Hitler». Un modo per sviare la Convenzione di Ginevra del 1929 sulla tutela dei prigionieri di guerra. «Io e i miei compagni – racconta il 94enne – sopportammo per oltre venti mesi la disciplina rigida e vessatoria e le sadiche punizioni dei nostri carcerieri, la fame terribile, il rigore del clima senza adeguati indumenti, la mancanza di assistenza sanitaria, la sporcizia, i parassiti, la privazione di notizie da parte delle famiglie, la lenta distruzione della personalità, per ridurci a semplici stuk, che in tedesco vuol dire pezzi».Nel luglio del ’44 «in virtù dell’ignobile accordo stipulato con Mussolini, la Germania ebbe facoltà di precettare per il lavoro coatto anche gli ufficiali». Così un giorno, con altri 213 ufficiali, in virtù di questo accordo della civilizzazione, fummo congedati dall’Oflager di Wietzendorf – precisa Montagano – e condotti a lavorare». Per i tedeschi i militari italiani erano civili, ma «noi – afferma Montagano – continuavamo a sentirci ufficiali del Regio esercito italiano. A ribadire il nostro no alla collaborazione con il nazifascismo. Tutti e 214 ci rifiutammo di lavorare ad oltranza». Un vero sabotaggio durato cinque giorni dopo i quali gli ufficiali dovettero fare i conti con la Gestapo e le SS. «Ventuno di noi furono presi e destinati alla decimazione. E la condanna sarebbe avvenuta sicuramente se 44 ufficiali non si fossero offerti spontaneamente di prendere il loro posto. Sono stato messo al muro per ben otto ore ad aspettare la fucilazione». Poi, la condanna fu commutata in carcere a vita da scontare nel campo di sterminio di Unterluss, satellite di Bergen Belsen, direttamente gestito dalle SS.«Avuta salva la vita – continua il reduce – ho iniziato questa fase della mia nuova prigionia lanciando dal treno diretto in Germania un biglietto fortunosamente giunto ad un mio parente a Trieste nel quale dicevo di essere in mano dei tedeschi». Montagano in quel biglietto scriveva: «La mia coscienza di Italiano è integra. Avvisate la famiglia: Viva l’Italia». Per lui, così come per gli altri prigionieri, la Patria non era morta. Anzi, quel no ai tedeschi, come fu il no della Divisione Acqui a Cefalonia e Corfù, rappresenta il primo atto di resistenza fuori dall’Italia dopo l’8 settembre. Una resistenza senza armi che ha contribuito in modo importante a portare la libertà e la democrazia nel nostro paese. Come la maggior parte degli arruolati nel Regio esercito italiano, anche Montagano quando fu chiamato alle armi era poco più che ventenne. «Sulla manica della mia divisa portavo la fascia VU, ovvero volontario universitario. Così ci chiamavano, anche se volontari non eravamo» racconta l’ex ufficiale. Montagano, assieme agli altri giovani, educati a dire sempre "sissignore" una volta internati dissero "no" a qualsiasi forma di collaborazione con il Terzo Reich e con la Repubblica di Salò.Dopo la Liberazione in una lettera alla madre il giovane Montagano scriveva: «Sono finalmente libero e ringrazio Iddio per la forza concessami a durare sino in fondo. Ho fatto quanto era mio dovere di soldato italiano. Sono fiero della prova che ho sostenuto e dell’esempio che ho dato». Ancora oggi, dopo 70 anni, Michele ricorda l’azzurro del cielo dell’Italia e il blu del lago di Garda quel giorno quando finalmente rientrò a casa nel settembre del 1945. L’unico ricordo triste immediatamente successivo alla Liberazione rimane, dopo tanti anni, quello dell’incontro con il padre, anche lui militare del Regio esercito italiano con il grado di comandante, che Michele rivide tra le fila di quei soldati che cedettero a schierarsi a favore della Repubblica sociale di Salò. «Il pensiero che ora i partigiani avrebbero potuto ucciderlo – ricorda – mi assillò fino a quando la Liberazione non fu compiuta. Poi finalmente lo riabbracciai a casa».
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