«Sia o no corretto, l’idea corrente della Grande Guerra deriva in primo luogo dalle immagini delle trincee in Francia e Belgio», scriveva quasi quarant’anni fa Paul Fussell nel libro
La Grande Guerra e la memoria moderna. In trincea ci saranno anche molti intellettuali. Nelle discussioni sono quasi tutti animati da spirito di patriottismo. Per
Giovanni Boine, nel 1914, la guerra era una scossa provvidenziale dalle comodità borghesi e dall’egoismo personale. Per
Giovanni Papini e
Giuseppe Prezzolini era un mezzo eroico per risvegliare il Paese imbolsito, un modo per raggiungere rapidamente potenza e ricchezza. Per
Filippo Tommaso Marinetti, nell’ Alcova
d’acciaio, è la celebrazione di un enorme amplesso per possedere «l’amatissimo corpo della Femmina-Madre- Patria», come scrive Mario Isnenghi in un classico della materia. Per i francesi diventava l’occasione di lavare l’onta di Sedan nel 1870; per i tedeschi la continuazione del sogno pangermanico: ma per
Ernst Jünger, ferito ventuno volte durante il conflitto, la guerra fu la rivolta dei figli contro i loro genitori borghesi, come nota lo storico Eric Leed.Il patriottismo e il revanchismo erano retoriche nutrite dall’impulso nazionalistico. Ma tanti intellettuali che si arruolarono erano spinti semplicemente dalla volontà di mettere alla prova la loro umanità: sottrarsi a quella chiamata del destino avrebbe significato, domani, perdere ogni diritto di parola, col rimorso magari di essere vivo al posto di un altro. Lo scrive nell’Esame
di coscienza Renato Serra, che morì dopo appena due mesi di fronte il 20 luglio 1915: «Uno che espone il petto / prende il tuo posto in questo momento / Ti scade l’ultima speranza di essere uomo / in questo momento». C’è un istante preciso, però, nel quale la guerra smette di essere oggetto di disquisizioni teoriche, nel quale l’intellettuale diventa uno come tanti. È l’istante della prova del fuoco in trincea. Esperienza raccontata da Ernst Jünger in
Sturm nel 1923: una granata piove dal nulla e fa un morto e molti feriti. «La guerra aveva gettato di colpo la sua maschera di bonomia […] come l’apparizione di un fantasma in pieno mezzogiorno». Anche
Robert Graves tenta di spiegare le terribili e indescrivibili «impressioni auricolari» al fronte: «Le menti erano incrinate dal rombo continuo». Rombo d’artiglieria e frastuono di motori che ispireranno l’apocalittica commedia di
Georges Bernard Shaw Casa cuoreinfranto, che illustra una sua celebre affermazione uscitagli di bocca dopo aver decantato la bellezza dello spettacolo di uno Zeppelin abbattuto sul cielo di Londra: «Che mucchio di animali siamo». Guerra, in tedesco, è maschile:
der Krieg. E Jünger ne dichiara il senso per la sua generazione: «La guerra, Padre di tutte le cose, è anche nostro padre. Esso ci ha battuto, forgiato e temprato in ciò che ora siamo». La guerra, infatti, sgretola anche i muri più robusti dello scetticismo, come accadde ad
Arthur Conan Doyle dopo aver perduto al fronte un fratello e un figlio. A guerra finita molti organizzavano sedute spiritiche per mettersi in contatto coi loro cari morti al fronte. Anche Conan Doyle nel 1919 partecipò a una seduta dove un medium gallese prestò se stesso alla voce di uno spirito indiano di nome Falco Nero. Fu un evento così traumatico, quella guerra, che molti non riuscivano a elaborarne il lutto. Ma questa idea dei morti che ritornano non è soltanto dello spiritismo.
Blaise Cendrars, che al fronte perse un braccio nel 1915, partecipò da attore e assistente regista al film di Abel Gance
J’accuse, le cui riprese iniziarono nel 1918 mentre la guerra ancora infuriava. Il film inizia in un cimitero di guerra, dalla terra si alzano ombre, sono i soldati caduti, avvolti in bende, zoppicanti, scheletriti e decompo-sti, che s’incamminano verso i villaggi d’origine per verificare se il sacrificio delle loro vite non sia stato vano. Il mondo che trovano è meschino, pieno di egoismi. Ma il loro aspetto è così inquietante che immediatamente la gente dei villaggi si ravvede. A quel punto i morti tornano nelle loro tombe. Il film aveva come comparse soldati veri, presi dal fronte con l’autorizzazione dell’esercito francese, e a fine lavorazione molti di loro erano morti davvero: come ha giustamente osservato Jay Winter, «rappresentazione e realtà erano venute a coincidere». Tra le comparse del film c’era anche il poeta
Guillaume Apollinaire, che morì negli ultimi giorni di guerra vittima dell’influenza spagnola che dilagava in Europa. La scena del ritorno dei morti coglie nel segno e, conclude Winter, è «capace di trasformare il melodramma in mito».
Debouts, les morts! “In piedi i morti”: è il titolo di una delle acqueforti di
Georges Rouault nel
Miserere: si vede la morte vestita da soldato che incita i soldati caduti a rialzarsi per continuare a combattere e mietere altre vite. L’espressione venne utilizzata da
Maurice Barres nel 1915 riprendendo un aneddoto raccontato da
Vincent Péricard, dove i soldati francesi in una trincea vengono decimati dai tedeschi armati fino ai denti. In quell’istante un soldato francese si getta su un sacco di granate e comincia a lanciarle gridando «In piedi i morti!». A quell’ordine tre suoi compagni si rialzano e ingaggiano di nuovo la lotta e alla fine hanno il sopravvento sui tedeschi. «Quella frase sublime aveva resuscitato i morti», conclude Barres.
Jean Norton Cru, soldato e scrittore, nel 1929 pubblicò un libro,
Témoins (“Testimoni”), nel quale svelò come quella esclamazione non fosse affatto nuova, già nel 1873 si trova in una canzone da caffè-concerto, e apparteneva anche al gergo militare: la usava, per esempio, il capocamerata per svegliare i suoi commilitoni al mattino. Facendo scalpore nell’opinione pubblica e attirandosi l’ostilità del governo, Cru con quel libro sfaterà una quantità di mitologie belliche su cui lo Stato maggiore dell’esercito francese aveva costruito la sua retorica della vittoria. Discorso ripreso, l’anno dopo, anche da
Gabriel Chevallier nel suo romanzo
La paura. Retorica che, in modo grottesco e con le solite pantomime autobiografiche, fa breccia anche in
Louis-Ferdinand Céline quando scrive
Viaggio al termine della notte. Ma questa retorica del fuoco, del ferro, del sangue e della macchina che schiaccia l’uomo, portava con se un’insidia maggiore. Lo intuì
Pierre-Maurice Masson, giovane intellettuale morto in trincea nel 1916, ricordato da
Miguel de Unamuno nel 1919 in una corrispondenza per il giornale argentino
La Nación: «Sottrarre alla morte il suo significato – scrive Masson in una lettera dal fronte – è uno dei più grandi pericoli della guerra». Perché solo quando torna la pace la morte recupera quel senso tragico che sembra aver perduto sui campi di battaglia. E Unamuno ricordava che proprio in trincea il medico
Marcel Faure-Beaulieu aveva tradotto la prima edizione francese de
Il sentimento tragico della vita.Con tono shakespeariano, il fustigatore
Karl Kraus si era chiesto se quella guerra fosse «una redenzione o soltanto una fine?». Non era affatto compassionevole la sua domanda, aveva invece quel senso apocalittico che poi confluirà nel capolavoro
Gli ultimi giorni dell’umanità. Ed è sul crinale di questa apocalittica che gli orizzonti di alcuni intellettuali cattolici si dividono: accade, per esempio, a
Georges Rouault rispetto al suo maestro spirituale Léon Bloy. La “teologia della rassegnazione”, ovvero la fede ostinata di Rouault nella Resurrezione, è proprio resistenza alla tentazione apocalittica. Realizzato tra il 1916 e il 1928, quel ciclo di cento incisioni doveva intitolarsi
Guerre et Miserere, ma alla fine Rouault preferì soltanto
Miserere. L’impulso iniziale da cui parte questo capolavoro, dunque, è una meditazione sui “disastri della guerra”, che si apre alla religiosità assumendo Cristo come modello di tutte le vittime del massacro. L’abbé Morel scrisse che fra i tanti monumenti fioriti nelle piazze per commemorare i caduti non ne conosceva nessuno che avesse «l’elevatezza, l’intimità e, dunque l’efficacia e la forza spirituale conseguiti da Rouault in quest’opera »: si trattava di ricostruire «ciò che la guerra aveva distrutto nell’uomo». Un grande romanziere francese,
Pierre Mac Orlan, inviato di guerra sul territorio tedesco verso la fine del conflitto, nel libro
La fin (1919) racconta il suo viaggio da Coblenza a Francoforte. Per tanti la Germania «ha rappresentato l’organizzazione nella sua perfezione, e la Francia, beninteso, il suo opposto». Idea che un altro scrittore francese,
Jacques Rivière – amico fraterno di
Alain Fournier (morto al fronte nel settembre 1914, due settimane dopo
Charles Péguy ) –, nei diari di prigionia rifusi nel 1918 in
L’Allemand: souvenirs et réflexions d’un prisonnier de guerre, contesta: «Ho visto troppo da vicino l’imperizia, la mancanza di logica, l’affollamento e l’inattitudine dei tedeschi alle operazioni più elementari di gestione e distribuzione per farmi illusioni sulla loro competenza in fatto di organizzazione». Ma poi confessa: «Ho mentito fino a qui: la Germania ha un dono, una qualità innata: la volontà! Il lavoro non è per i tedeschi quella punizione che è per noi […]. Essi cadono nel lavoro come altri nel peccato […]. Il lavoro e la forza di volontà li portano a una sorta di creazione
ex nihilo. Traggono tutto ciò che vogliono dal niente». Nel suo viaggio Mac Orlan segue i francesi che entrano a Magonza: «La maggior parte degli abitanti assomiglia a topi, topi glabri ma simpatici, spesso di una intelligenza tagliente. Agitati dalle questioni elettorali questi topi non veicolano bacilli di bolscevismo». Ma il virus bolscevico, in realtà, è già inoculato. Ormai a guerra finita, a Francoforte, «trionfo del piacere in tutte le forme », dove i ricchi danzano sfacciatamente nel lusso, Mac Orlan assiste a una rivolta: una donna che gestisce una casa del gioco d’azzardo viene arrestata ed ecco che la folla inferocita si scaglia contro la polizia: per alcuni è il pretesto per incitare la folla alla rivoluzione. Bilancio finale: undici marinai uccisi, diciotto rivoluzionari fucilati, settecento arresti. Il vento che porta altri cattivi auspici per l’umanità già soffia sulle ceneri ancora calde dell’“inutile strage”, tanto inutile che se ne farà una ancora più grande appena vent’anni dopo.