La mostra che la Fondazione Roma presenta in questi giorni per celebrare la grande pittura inglese, da Hogarth a Turner, sembra sorvolare leggera sopra questo universo della «società marginale », per dare invece spazio alla rappresentazione di un ideale pittorico che i curatori della mostra, Carolina Brook e Valter Curzi, nel catalogo edito da Skira definiscono così: «La sfida per le arti contemporanee era quella di elaborare un’iconografia nazionale in grado di esprimere quei valori di civiltà e libertà che il paese avvertiva come condizioni essenziali della propria storia». In effetti, se si pensa a che cosa fosse stato il Globe, il teatro voluto da William Shakespeare per rappresentare le proprie opere, ci si trova facilmente d’accordo nel dire che il pubblico cui si rivolgeva il Bardo era “popolare” sia nell’assortimento sociale sia nei modi: mangiavano e parlavano tra loro, gli spettatori, pulendosi sui vestiti le mani bisunte, mentre in scena si recitavano tragedie e commedie, creando una sorta di interazione spaziale e sonora tra reale e finzione.
L’iconografia nazionale che la pittura inglese cerca di fondare oltre un secolo dopo Shakespeare non disdegna le classi plebee, ma ne marginalizza la portata sociale costringendola dentro una sorta di “convenienza” formale, di decoro o di controllo razionale, che si distacca molto sia dall’universo rappresentato da Géricault sia da quello che prende vita, con effetti di esilarante comicità, in Dickens. Le vedute di Canaletto, a metà Settecento, portano Oltremanica il linguaggio della chiarità atmosferica, con effetti di cristallina e razionale trasparenza, che ritroviamo, in una luce però più torbida, cioè meno idealizzata, anche nelle vedute coeve di Samuel Scott; ma il lustrascarpe o la lattaia di Paul Sandby sono ancora rappresentazioni dei mestieri quasi prive di pathos e mancano di quell’umbratile realismo con cui Géricault guarda il mondo dei povericristi cercando di tenere insieme verità e pietas. Senza alcuna inclinazione ideologica: negli stessi anni dipinge il Derby di Epsom, singolare raffigurazione di una corsa equestre dove i cavalli al galoppo sembrano quasi sospesi nell’aria scolpiti su uno sfondo che, immaginando di poter escludere dal campo visivo cavalli e cavalieri, potrebbe fungere da simbolico ponte tra Constable e Turner. La qualità dell’aria e della luce: si sente qui una dipendenza dei pittori inglesi dalla pittura italiana, francese e olandese; nelle vedute di Marlow, per esempio, si coglie una sensibilità per i poteri metamorfici della luce che scolpisce e diluisce allo stesso tempo le forme in una sapiente alternanza con l’ombra. Di ben altro timbro, invece, l’interno della Banca d’Inghilterra di Joseph Gandy e Antonio van Assen, dove l’imponenza e la solidità architettonica soverchia le figure umane dichiarando apertamente la natura di quel luogo come tempio di una nuova religione laica, il denaro: lo spazio appare come sintesi straordinaria di vuoto e di luce che evoca questa nuova divinità capace dell’astrazione più assoluta.
La sezione intitolata al “nuovo mondo” unisce l’apertura al sapere nel solco dell’illuminismo, la volontà dell’artista di farsi interprete di una storia nazionale come sacerdote che ne detta governa la liturgia, l’imporsi della visione imperiale e coloniale con un forte contrasto fra la gravità, anche materiale, di una ritrattistica che “identifica” il personaggio, lo rende una presenza che aggetta dallo spazio, come nei quadri di Zoffany, Gainsborough e Reynolds, esaltandone l’individualità nel riconoscimento del ruolo sociale che riveste; ma, dall’altro, la mostra ci propone visioni idilliache, esotiche come la Tahiti di William Hodges, o gli immoti paesaggi di Francis Swain Ward. Naturalmente, per entrare in società, nei suoi vizi e nei suoi riti, ci si deve rivolgere alle stampe di Hogarth e Cook, o ai ritratti di gruppo che svelano l’autoconsiderazione dei notabili inglesi dell’epoca, che camuffano la ruvidità delle loro origini celtiche e nordiche col decoro delle buone maniere. Nessuno di loro, però, riuscirà mai a cancellare del tutto la durezza della scorza umana che nell’etica della libertà rende improbabile ogni sospetto di tenerezza (tutto questo è riassunto nella piramidale composizione della Famiglia Sharp dipinta da Zoffany).
In questa parata di temperamenti tutti riconducibili a un ceppo umano, il povero Füssli e le sue saghe mitiche e stregonesche, sembra uno che abbia sbagliato party; manca, peraltro, William Blake, e manca tutto quel discorso sul sublime che è tipicamente inglese e più si riallaccia alla vena shakespeariana. In una progressione che culmina nel paesaggio, ma senza un vero snodo chiarificatore, si approda a Constable e Turner. Quest’ultima sezione lascia un po’ insoddisfatti: non c’è abbastanza né dell’uno né dell’altro per trarre le conclusioni “verso la modernità”. Nella nube materica Turner ingoierà e dissolverà quel principio stesso di identità nazionale inglese, fondato su due secoli di imperialismo britannico, presagendone, come informale cancellazione dell’individualità (alla base del liberalismo britannico), un altro imperialismo, più subdolo e attuale: quello della globalizzazione. Turner questo non poteva saperlo, ne ha avvertito tutt’al più il brivido, quello della modernità che rivolge la propria hybris contro se stessa. Argomento che, di contrappunto, riappare poi nella pittura di Bacon e di Freud, come ritorno a una ritrattistica “post imperialista”. Roma, Palazzo Sciarra HOGARTH REYNOLDS TURNER Pittura inglese verso la modernità Fino al 20 luglio