Ho conosciuto Indro Montanelli nel 1972 quando, da presidente di una giuria che comprendeva Enzo Biagi, Guido Piovene, Paolo Monelli e altri, mi diede il premio dei giornalisti italiani "Campione d’Italia", per il volume
Terzo Mondo perché povero. Nelle motivazioni del Premio definì i missionari «gli italiani più amati nel mondo». E dopo la consegna mi prese in disparte e mi disse: «Hai vinto il Premio perché sei un missionario e scrivi dei missionari, raccontando le loro esperienze… Se eri un prete e parlavi dei preti in Italia, il Premio te lo sognavi». Ero troppo timido e giovane per reagire. Nel 1986 mi chiamò a collaborare con "Il Giornale". Sapeva che viaggiavo molto e mi chiese di mandargli articoli sulla vita e il lavoro dei missionari. Così è iniziata una lunga collaborazione, continuata con "La Voce". Gli mandavo cartoline e articoli e quando tornavo in Italia andavo a trovarlo. Era curioso di come vivevano e cosa facevano i missionari, dei quali aveva una visione mitica. «Voi missionari siete tutti eroi, diceva, perché abbandonate la nostra bella Italia, per andare a vivere tra i più poveri dei poveri in capanne di fango e paglia». Quando nel 1991 la Somalia era nel caos e io c’ero stato da poco, Montanelli mi chiese articoli e scrisse due editoriali invitando i lettori ad «aiutare i missionari di padre Gheddo in Somalia», dicendomi di precisare chi erano questi missionari e missionarie. So che le Missionarie della Consolata di Torino e i Francescani milanesi lo ringraziarono per le notevoli somme ricevute. Ho conservato due testi di Indro. Il primo è una sua "stanza" sul "Corriere della Sera" di domenica 7 febbraio 1999, che era una mia lunga lettera pubblicata integralmente, dichiarando: «Ciò che padre Gheddo dice è tutto vero: tonnellate di rifornimenti e "cattedrali nel deserto" servono a poco. Bisogna insegnare agli africani a "fare da sé", come infatti fanno i missionari…Ho detto e ripeto che per l’Africa non servono né le diplomazie con i loro "protocolli", né gli eserciti con le loro armi. Servono solo i missionari. Se vogliamo aiutare l’Africa, aiutiamo loro». Il secondo testo di Indro è la prefazione al mio volume
Missionario. Un pensiero al giorno uscito nel 1997, nella quale si legge: «Per soccorrere quei popoli disgraziati un mezzo ci sarebbe. Dare la gestione dei miliardi di "aiuti" ai missionari, di cui padre Gheddo scrive in questo libro: quelli che da anni e decenni vivono laggiù, peones tra i peones, sfidando lebbra e colera e tutto il resto, combattendo la fame non con la distribuzione di farina, ma insegnando alla gente – nella sua lingua – come si coltiva il grano, come si scavano i pozzi e i canali, condividendone, giorno dopo giorno, rischi e privazioni. È tra questi ultimi grandi Crociati della civiltà cristiana che la Chiesa dovrebbe reclutare i suoi nuovi santi, perché sono i missionari, figli del nostro mondo ricco e arido, che indicano ai giovani la via per stabilire con i popoli poveri ponti di comunicazione e di aiuto fraterno». «Per aiutare i popoli poveri – aggiungeva – i miliardi non bastano. Ci vogliono i missionari alla Marcello Candia (industriale della Milano opulenta che vende tutto e va in Amazzonia a servire i poveri) e alla Clemente Vismara (eroe della prima guerra mondiale che trascorre 65 anni fra i tribali in Birmania), di cui parla questo libro. Ma i missionari sono difficili da stanziare nei bilanci dello Stato. Dovrebbero produrli le nostre famiglie, la nostra scuola, la nostra cultura cristiana. Temo che la vocazione profonda della civiltà cristiana – la carità verso gli altri – sia oggi in ribasso, almeno nelle cronache quotidiane e nella "filosofia di vita" della nostra società».E ancora: «Ho visto con piacere che in queste pagine padre Gheddo parla di padre Olindo Marella, che egli definisce "un santo del nostro tempo". È vero, l’ho conosciuto bene come insegnante di filosofia a Rieti e poi a Bologna. Lo si vedeva per le strade a mendicare, completamente dedito alla missione di aiutare i ragazzi sbandati, i barboni, gli anziani abbandonati, i poveri. Mi insegnò a vivere per gli altri. Insegnamento che peraltro io non ho seguito. In un certo senso oggi lo invidio. È morto ignaro di se stesso, ignaro di essere santo». Conservo di Indro un commosso ricordo per le volte che mi bloccava e mi chiedeva perché il Papa dice così o cosà, perché la Chiesa non capisce questo o quel problema, come si può credere a Dio che si lascia flagellare e crocifiggere… Era un uomo assetato di Dio, voleva capire qualcosa del Creatore e Signore di cui sentiva la presenza ma non riusciva a parlarci e ad avere risposte ai suoi interrogativi. Il 22 aprile 1989 sono andato a fargli gli auguri per i suoi ottant’anni e mi dice: «Fra me e te il fortunato sei tu che hai ricevuto la fede. Io invece non ce l’ho. Tu sai perché vivi, io ancora non lo so. Infatti tu sei sempre sereno e sorridente, mentre io soffro di insonnia e di depressione». Ma questi sono i palpiti di un’anima che lasciamo alla paterna bontà e misericordia di Dio. Prego per lui, ma sono sicuro che la sua onestà intellettuale e la sua ricerca di Dio hanno già ricevuto la giusta ricompensa dal Padre nostro che è nei Cieli.