giovedì 13 febbraio 2014
​I campanili della Bassa, i sacerdoti e i poveri: uno studio raccontra il rapporto col sacro del giornalista e scrittore.
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«Quando in un libro di Bergson ho trovato questi versi di Goethe: "Chi ha arte o scienza, quegli ha anche una religione; chi non le ha, quegli abbia una religione", ho fatto la verticale, perché ero giovane. Adesso vecchio (a 50 anni, ndr), senz’arte, né scienza, incomincio a temere che mi serva una religione». Così Gianni Brera nel 1969 rispondeva ad una lettera di una lettrice del "Guerin Sportivo" - settimanale che dirigeva - curiosa di conoscere il suo credo. E questo è anche l’incipit di Quasi una preghiera, breve saggio di Andrea Maietti, il "professore", biografo nominato sul campo dallo stesso Brera, inserito all’interno del volume Il tempo sperperato (Fondazione Maria Corti, Università di Pavia). Si tratta di una raccolta di scritti che autori vari hanno dedicato alla grande anima di San Zenone al Po ad oltre vent’anni dalla sua morte, avvenuta per un banale incidente d’auto nel 1992. «El gran Gioânn entrava di rado in chiesa, magari solo per il funerale dello Zio Giacomo, ma la sua scrittura pulsa di religiosità: i campi, il fiume, la caccia e la pesca, la terra, l’osteria - spiega Maietti - . Ma soprattutto pulsa di nostalgia. E si deve parlare di una nostalgia che sta tra Hemingway e Leopardi, per tacere di Shakespeare o Keats. E proprio il concetto keatsiano di "Negative capability" mi pare il marchio della malinconia breriana: la capacità di reggere il mistero e gli oltraggi del tempo senza cercare una fuga  consolatoria, quale che sia". Il suo vero rifugio terreno e autentico luogo dell’anima sarà fino all’ultimo respiro la Bassa, la poetica e natìa "San Zenone-Pianariva" in cui celebrò l’epica della dimensione paesana. «Una dimensione costante della Bassa è quella verticale - scrive il suo biografo - , è la dimensione della preghiera. E non sono solo i mille campanili che tracimano oltre pioppi e platani, salici e olmi. È piuttosto un passare di cielo, una sacralità di gesti antichi, incompatibili con la grande città». Un lento fluire delle cose e delle persone, in un borgo nascosto dal resto del mondo, perché ammantato di nebbia che evapora dai due fiumi, «padre Po e madre Olona». Fiume e terra che Brera identifica con la madre: contadina, credente e devota, alla quale con estremo pudore dedica un ritratto poetico. «Però Brera, non volendo passare da poeta si firma con lo pseudonimo M.L. Aloisi», sottolinea Maietti. È un componimento struggente Il Dio di mia madre, quasi una preghiera appunto, in cui Brera scrive: «Troppo severo è il Dio di mia madre. / Ogni sera ella chiede perdono / di aver sofferto per vivere. / Forse tra noi e lassù / corrono amari equivoci, / ma più sicuro è che provo pena / per chi soffrendo, chiede ancora perdono. / nascere non è colpa, né vivere / di così poco e laborioso pane». Qui emerge il sentimento religioso dell’uomo di lettere, del fine narratore prestato alla carta stampata, che anche per mestiere ha sempre privilegiato i fatti e quindi la logica della ragione. Ma affiora anche il cristiano che dubita, che prova solidale tenerezza per i poveri, per i contadini che chiedono e temono al Cielo. Da qui nasce anche la sua avversione per "Don Lisander" Manzoni «perché come Gramsci, i poveri li prende per il bavero», sosteneva Brera. Ecco spiegato anche il piglio polemico nei confronti del suo quasi compaesano (pavese di Albuzzano), il fervente manzoniano don Cesare Angelini. Eppure, anche con don Angelini c’è un punto d’unione, che è dato dal rispetto e l’amore viscerale per l’umile eppur nobile radice Bassaiola. «Nella memoria e nel sangue del ragazzo, più che il ricordo di quella dura povertà, è rimasto il ricordo di quella natura; e fu la sua salvezza», scrive don Cesare in Questa mia Bassa (Scheiwiller). Un passo che Brera non poteva che condividere, anche se scritto da un "prete". Ironia tagliente dell’uomo comunque scevro da qualsiasi moto anticlericale. Anzi, a chi sospetta che ne possieda, replica con ammirazione alla Chiesa che si rinnova: «Io non mi intendo di pedagogia religiosa, però mi sembra che già facendo sport agonistico i chierici sono veramente avviati ad essere moderni e naturalmente più veri e schietti, dunque più accettabili da tutti, credenti e no». Il suo Dio lo trova ai tavoli dei «poveri che invecchiano in osteria». Non a caso, nella Bassa le osterie le chiamano «chiese». Ed è lì dentro che il giovane Brera ha fatto il suo apprendistato sui sentimenti umani, l’università dell’arte del «mangiarebere», coniando un linguaggio di un’antropologia che diventa teologia di odori e di colori della sua terra. Quella zolla materna che l’ha reso «Principe» e che non ha mai abbandonato, preferendo «disfarmi qui a poco a poco e non essere inutile del tutto», ma anzi sentendosi biblicamente «sacerdote per sempre come Melchisedech».
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