Ottant’anni fa non è tornato. E da allora il prete-scalatore un po’ spericolato, il parroco che dopo la Messa metteva in spalla lo zaino e spariva sui monti della zona, il sacerdote che conosceva le montagne della Val Chiavenna più di tutti gli alpinisti divenne
Il prete scomparso : aggiungendo alla fama di ottimo arrampicatore il mistero di una fine sconosciuta. A don Giuseppe Buzzetti, scomparso il 14 luglio 1934 in alta Val Masino (provincia di Sondrio), il Cai di Chiavenna ha dedicato un volume biografico intitolato come sopra e una recente salita in solitaria del fuoriclasse Rossano Libéra della nord del Pizzo di Prata, sempre in Valtellina: la cima sulla quale il sacerdote avrebbe compiuto una delle sue scalate più incredibili. «Avrebbe», perché don Buzzetti non parlava quasi mai delle sue imprese: di alcune si seppe solo una ventina d’anni più tardi, allorché – nell’intento di aiutarlo a stendere una guida escursionistica di quelle valli – egli stesso le narrò al conte Aldo Bonacossa, all’epoca presidente del Cai. Classe 1886, Giuseppe Buzzetti era nato in una famiglia di una certa agiatezza, essendo il padre agente delle Poste Svizzere al di qua dei valichi alpini dello Spluga e del Maloia, e in seguito commerciante-imprenditore; ma non sembra aver mai messo in questione di voler essere sacerdote: entrato ragazzino nel seminario di Como, non aveva lasciato la veste nemmeno quando per ragioni di salute (un’infezione al piede destro che lo lasciò poi leggermente zoppo) dovette trasferirsi sulla Riviera ligure; infatti si fece ospitare nel seminario di Sanremo. Fu anche maestro elementare, peraltro, nei paesini dove di volta in volta venne inviato come parroco, e amante dei nuovi ritrovati della tecnica come la fotografia e le motociclette. «Ma la sua vera passione – riconoscono i biografi – fu sempre la montagna: passione contagiosa, che trasmetteva coscientemente, fattivamente a chiunque lo avvicinasse», dai parenti (
in primis i giovani nipoti, tanto che i genitori di questi ultimi, per timore degli ardimenti alpini dello zio, sequestravano loro gli scarponi per impedire di seguirlo nelle escursioni) agli amici, ma anche ai conoscenti occasionali e – scandalo per l’epoca! – ad alcune donne. Comunque don Buzzetti scalava soprattutto in solitaria. Prete dal 1910, praticava la montagna già in precedenza (al 1905 si fanno risalire alcune sue imprese notevoli) ed ebbe dunque circa un trentennio per esplicare la sua attività con numerose «prime» sui monti della Val Chiavenna e infinite varianti. Difatti il sacerdote, oltre a non curarsi troppo di documentare le sue ascensioni, aveva un’altra attitudine che dimostra il suo approccio assai poco competitivo e anzi assolutamente libero alle cime: amava ripetere spesso le sue stesse vie, provando itinerari alternativi sempre alla ricerca del più breve – anche se più ripido. Lo attira molto la parete del Pizzo Prata, detto Pizzone dai chiavennaschi, che il prete scala appunto da nord superando difficoltà che lasciano increduli molti contemporanei, dato pure che Buzzetti saliva in libera, slegato, spessissimo in giornata e con l’attrezzatura rudimentale del primo Novecento. «Come può riuscirci?», si chiedeva in dialetto la gente vedendo il parroco partire per le escursioni con il grosso bastone sul quale aveva inciso la Passione di Cristo. Anche l’11 luglio 1934 partì da solo e scomparve su una cresta nelle nuvole basse di un temporale; non si presentò alla messa che doveva celebrare la domenica 15 nella solita chiesetta di montagna e subito si misero a cercarlo in molti. Su una sella tra le cime venne trovato un messaggio in una scatoletta di metallo: il prete avvisava qual era la sua meta, segno che lui stesso non era sicuro di arrivarci con quel cattivo tempo e voleva lasciare un’indicazione per eventuali soccorritori. Ma nemmeno il suo corpo venne più ritrovato. Resta dunque il mistero sulla sua fine (ci fu persino chi ipotizzò che avesse passato il confine svizzero per errore e fosse stato ivi trattenuto dai gendarmi...) ma anche sulla consistenza delle sue imprese alpinistiche: potrebbero essere molte più di quelle – già cospicue – che gli vengono attribuite. A lui, considerato l’eroe degli inizi per il Cai di Chiavenna, fin dal 1926 è intitolata una punta nel gruppo retico del Gruf (evento raro, la dedica di una cima «in vita», e significativo delle benemerenze alpine dell’interessato), invece postuma in suo nome venne innalzata nel 1966 una croce sulla vetta del Piz Damìn. Il rocciatore Libéra, che nel maggio scorso ha commemorato don Buzzetti sulla parete del «suo» Pizzone, ha scritto: «Personalmente sono affascinato dal modo in cui sapeva esprimere l’alpinismo questo nostro prete di un secolo fa e mi chiedo quale richiamo poteva destare in lui la montagna, lui che già a un forte richiamo aveva risposto. Che bisogno doveva avere di assoluto uno che era già un uomo di Dio?... Chissà cosa cercava in cima alle montagne: forse una risposta all’assoluto, forse semplicemente se stesso». La soluzione sta forse in uno dei rarissimi scritti lasciati dal prete scalatore: «Un alpinista in buona fede non può essere antireligioso. L’alpinismo è mistico».