venerdì 12 maggio 2017
Dallo Spartak Mosca al “Pelè bianco” Strel’cov: così l’Urss usava il calcio per dominare il mondo
Il murales dedicato a Eduard Strel’cov davanti allo stadio di Mosca

Il murales dedicato a Eduard Strel’cov davanti allo stadio di Mosca

COMMENTA E CONDIVIDI

Pedine di un "gioco" più grande. Soldatini in maglietta e pantaloncini di una partita che non finiva su un campo da calcio, ma continuava sullo scacchiere di un mondo diviso in due dalla Guerra Fredda. Sono i campioni del calcio sovietico, giocatori con una divisa pesante, quella dei "compagni del pallone" dell'Urss e dei suoi fratelli, gli Stati satelliti dell'Europa orientale. Figurine sbiadite dal tempo che riaffiorano ora in un libretto dal titolo intrigante Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista (Rogas. Pagine 108. Euro 10,90).

Si può infatti scorgere un Manifesto del calcio rosso che parte da Karl Marx e arriva al colonnello Lobanovs'kyj, non a caso figura ibrida, ufficiale dell'esercito russo e stratega della panchina. Lo sport doveva infatti esaltare la rivoluzione anticapitalistica dell'Urss (in cirillico Cccp). Le società sportive private non erano ammesse: tutte dovevano essere espressione di ministeri o organi statali, come il Cska (dell'Armata Rossa) o la Dinamo (del commissariato degli Interni/Kgb). Non poteva quindi passare inosservata la nascita nel 1935 dello Spartak Mosca, (dall'epico Spartaco che guidò gli schiavi contro Roma) l'unica squadra sovietica fondata da un gruppo di amici e non da una polisportiva del governo. Il club lanciato dai quattro fratelli Starostin si guadagnò a tal punto il favore popolare da ottenere nel 1936 addirittura la Piazza Rossa per una partita dimostrativa tra la prima e la seconda squadra sotto gli occhi di Stalin in persona. Ma, spiega il libro, «Lavrentij Berija, capo dei servizi di sicurezza dal 1938, responsabile delle repressioni staliniane, appassionato di calcio e presidente della Dinamo, fece arrestare e condannare a dieci anni di lavori forzati i fratelli Starostin, colpevoli del proprio successo e rei di aver sconfitto già troppe volte la sua squadra».

Non andò meglio a uno dei più grandi talenti del calcio mondiale, il Pelè bianco, Eduard Strel'cov (1937-1990). Il cannoniere della Torpedo Mosca aveva suscitato le mire del Cremlino che lo vedeva come arma migliore per conquistare il Mondiale del 1958. Ma il bomber moscovita commise due errori imperdonabili. Rifiutò il trasferimento alla squadra dell'esercito, il Cska, e si oppose a una relazione sentimentale con la figlia di Ekaterina Furceva, unica dirigente di sesso femminile del Partito comunista dell'epoca. Mentre Pelè incantava ai Mondiali svedesi, Strel'cov, genio e sregolatezza, unita alla passione per l'alcol, si ritrovò nella sinistra prigione di Butirka. Denunciato da Furceva per una non accertata violenza carnale, si lasciò estorcere ingenuamente a una confessione con la falsa promessa di raggiungere la squadra in Svezia e l'archiviazione del caso. Raggirato senza scampo, fu spedito in Siberia. Sette anni di lavori forzati nel gulag lo provarono duramente. E anche se, una volta uscito, riuscì comunque a portare la sua Torpedo al titolo, l'internamento siberiano lo aveva ormai minato nel fisico: morì per un tumore a soli 53 anni.

L'ossessione per l'"uomo nuovo", comune a tutti i totalitarismi del Novecento, doveva fare dell'atleta una macchina perfetta e invincibile, il migliore spot per reclamizzare la superiorità della società socialista nel mondo, il paradiso in Terra. Una religione atea che finì invece per costruire un inferno in cui chi non si allineava veniva eliminato. Vincere a ogni costo e con qualunque mezzo, era vangelo di Stato in tutti i Paesi del blocco orientale, come nella Germania dell'Est. Non riusciremmo altrimenti a comprendere il peso politico del gol vittoria di Sparwasser con la maglia della Ddr contro i "cugini capitalisti" della Germania ovest nel Mondiale del 1974.

In campo bisognava dare l'anima. E lo sport consentiva almeno di sfogare libertà, fantasia e imprevedibilità negate nella vita di tutti i giorni. Nazionali d'oro come l'Ungheria del colonnello Ferenc Puskás e stelle di leggendaria grandezza hanno brillato nella storia del pallone sovietico. A cominciare dal "Ragno Nero", Lev Jascin, le cui prime incerte apparizioni lo stavano convincendo di avere un futuro nell'hockey su ghiaccio. Prima di diventare un'icona tra i pali del calcio negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma in anni più recenti, non sono stati pochi i campioni forgiati da Valerij Lobanovs'kyj. Monumento dell'Urss in panchina e timoniere di ferro (pare che in Nazionale convocasse solo i giocatori che al culmine dello sforzo erano gli ultimi a vomitare), ai suoi ordini vennero fuori tanti fuoriclasse: da Oleh Blochin (Pallone d'oro 1975) a Oleh Protasov, da Hennadij Lytovcenko e Oleksandr Zavarov all'ultimo fenomeno all'inizio degli anni Novanta l'ucraino Andrij Shevchenko. Ma questa è tutta un'altra storia.

C'era già stata la perestrojka con cui Gorbacëv aprì le porte all'Occidente e la caduta del Muro di Berlino aveva scoperchiato non solo il doping di Stato (soprattutto nella Ddr). Ma anche il gigantesco condizionamento del potere sullo sport, con dirigenti usati come spie e laboratori segreti. Sul campo rimasero migliaia di atleti distrutti nel corpo, ma anche nell'anima. Il comunismo aveva tentato di strappare il cuore dal petto dell'uomo, con il suo bisogno di libertà e di infinito. Ma si rivelò un tragico autogol.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: