Un ritratto della scrittrice Mary Shelley - -
A forza di gridare al contagio si finisce, come alcuni scrittori, per farne un mezzo che dia un volto alle nostre fragilità Come Orwell e prima di lui Mary Shelley, la Firenze di Machiavelli oppure un classico saggio sulla “fine” di Kermode Anche in letteratura esistono contagi e contaminazioni, si impiegano reagenti e si rischia il falso positivo. Anche in letteratura, insomma, la pandemia incombe. Da mesi, ormai, siamo intenti a ripassare l’elenco dei classici sull’argomento: Tucidide, Boccaccio, il Defoe del Diario dell’anno della peste, il Manzoni della Storia della Colonna Infame (oltre che dei Promessi Sposi, è chiaro), e poi Camus, e Cecità di Saramago. Ma c’è un altro percorso, meno battuto, sul quale ci si può avventurare in un intreccio già di per sé rivelatore di titoli ricorrenti e attribuzioni discutibili. Quasi una biblioteca minima, all’interno della quale l’epidemia è molto più di un tema e diventa, al contrario, la struttura stessa dell’invenzione e della riflessione letteraria. Cominciamo dai titoli. Per molto tempo, mentre lavorava al romanzo che conosciamo come 1984, George Orwell aveva pensato di servirsi di un’altra dicitura, più esplicita. L’ultimo uomo in Europa avrebbe descritto bene la condizione di Winston Smith, che in una Londra ancora più cupa del solito cerca di ribellarsi al regime socialista di Oceania. Era un buon titolo (effettivamente impiegato qualche anno fa dall’australiano Dennis Glover per un libro in cui si racconta come Orwell scrisse 1984) ed era una citazione.
L’ultimo uomo è infatti il romanzo che Mary Shelley pubblica nel 1826, quattro anni dopo la morte del marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, e a meno di un decennio dall’apparizione del proprio capolavoro, Frankenstein o il Prometeo moderno, del 1818. Giustamente considerato un caposaldo della letteratura sulla pestilenza, L’ultimo uomo è stato di recente riproposto da Jouvence nella versione di Ornella De Zordo (pagine 588, euro 19,00). Si tratta di un libro imponente, che di sicuro non può vantare la semplicità e l’esattezza di ispirazione che fa di Frankestein un mito moderno. Qui siamo nelle regioni fosche e sovrabbondanti del gotico più convenzionale, rispetto alle quali l’autrice riesce tuttavia a giocare la carta inattesa di quella che oggi definiremmo distopia. L’azione è concentrata negli ultimi decenni del XXI secolo, la Gran Bretagna è una repubblica, la monarchia sopravvive in Francia e prospera in Austria. D’accordo, la previsione non risulta affidabile, ma il lettore capisce presto che il quadro politico è poco più di un pretesto. A differenza di quanto to accadrà nell’opera di Jules Verne, nell’Ultimo uomo non c’è alcun tentativo di fantasticare su progressi tecnologici o ritrovati della scienza. Il mondo si presenta così com’era all’epoca in cui il romanzo fu scritto, con qualche minima esagerazione della velocità consentita alle mongolfiere. Anche lo scenario geopolitico non ha subìto, in fondo, troppe variazioni, se si considera che la Grecia è ancora in tumulto e uno dei personaggi, il tenebroso ed eroico Raymond, condivide più di un tratto con Lord Byron, caduto a Missolungi nel tentativo di liberare Atene dal giogo ottomano. Mary Shelley è prodiga di allusioni alla cronaca e instancabile nell’ordire intrecci amorosi, sempre all’insegna della virtù e dell’abnegazione. Il vero scopo di un edificio tan- complesso consiste però nel predisporne la rovina. Narrato in prima persona da Lionel Verney, unico sopravvissuto alla pestilenza che ha fatto strage dell’umanità, il romanzo deve la sua forza a questa sensazione di spopolamento progressivo, al rincorrersi di allarmismi e sottovalutazioni, di avvisaglie stupidamente trascurate e febbri curate alla bell’e meglio.
Efficace finché si vuole, in questo campo Mary Shelley è meno innovativa di quanto potrebbe sembrare, dato che la sua descrizione del morbo dipende in larga misura dai predecessori, primo fra tutti il già ricordato Defoe. Ma a uno sguardo più attento, L’ultimo uomo rivela una caratteristica assai più interessante. Più che un romanzo sulla peste o sulla politica (o sulla peste della politica, per stare con Orwell), L’ultimo uomo è un romanzo sul tempo. Il disperato manoscritto di Verney ci raggiunge dal futuro solo perché, in un passato ancestrale, la Sibilla ne ha predetto il contenuto in un serie di iscrizioni che adesso l’autrice si premura di tradurre da ogni lingua possibile. Il contagio, dunque, interferisce anzitutto sulla percezione della realtà, minandone le premesse e stravolgendone le regole. E con questo siamo al secondo titolo, che trasmigra addirittura da un genere all’altro. Prima di essere un romanzo di Julian Barnes, infatti, Il senso della fine è stato un celebre saggio del critico britannico Frank Kermode, da poco riportato in libreria dal Saggiatore nella traduzione di Giorgio Montefoschi e Roberta Zuppet (pagine XX + 216, euro 26,00). Non è la prima volta che questo studio si presta a un’attualizzazione. Era apparso originariamente nel 1965, in piena Guerra Fredda, e tornò nel 2000 con un Epilogo dettato per l’occasione, nel quale l’autore teneva conto delle inquietudini suscitate dal passaggio di millennio. Incentrato su un nucleo di romanzi capitali del Novecento e sostenuto da continui riferimenti alla poesia di Wallace Stevens, Il senso della fine è una meditazione sul significato dell’Apocalisse in letteratura. L’Apocalisse intesa non come categoria generica, ma proprio come il libro conclusivo della Bibbia, dal quale la Scrittura stessa viene interpretata e compiuta. Sia pure fatalmente datato, come osserva Daniele Giglioli nel suo acuto saggio introduttivo, il lavoro di Kermode contiene ancora intuizioni preziose. Fondamentale, fra tutte, quella relativa all’aevum, il tempo fuori dal tempo teorizzato dalla Scolastica medievale e successivamente riassorbito nella finzione romanzesca, capace appunto di stabilire una connessione degli eventi molto diversa - e molto più penetrante - rispetto a quella normalmente sperimentata dagli esseri umani. Kermode non si occupa di Mary Shelley, eppure è abbastanza evidente che la virtù principale dell’Ultimo uomo consiste in questo scardinare e reincardanare la cronologia, sino a farle assumere un valore sapienziale.
Non è estranea al processo neppure la laicissima Epistola della peste che l’italianista Pasquale Stoppelli torna ad attribuire con certezza a Niccolò Machiavelli in un’importante edizione condotta sul manoscritto Banco Rari 29 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Storia e Letteratura, pagine 80, euro 18,00). A rendere particolarmente intricata la vicenda del testo ha contribuito la spregiudicatezza con cui Lorenzo Strozzi - figura di spicco nella Firenze del XVI secolo, dedicatario dell’Arte della guerra dello stesso Machiavelli e scrittore di ambizioni decisamente inferiori ai meriti - volle arrogarsene la paternità. Il garbuglio filologico è districato con eleganza da Stoppelli, che invita ad apprezzare l’Epistola per quello che è, ossia un frammento narrativo del tutto coerente con lo stile del Principe e con la mentalità della Mandragola. Come Mary Shelley si rifà a Defoe per la sua pandemia immaginaria, Machiavelli riutilizza il modello del Decameron per descrivere la situazione a Firenze nel Calendimaggio del 1523, quando in città imperversa la «mortifera pestilentia». «Nella morte si stenta, nella vita si teme», sintetizza Machiavelli prima di dare spazio all’eventualità di un’avventura galante che pare prospettarsi per l’indomani. Una speranza minuscola e un po’ meschina, ma pur sempre una speranza. Del resto, anche nel romanzo di Julian Barnes il 'senso della fine' da cosmico si riduce a personale, e riguarda la viltà dei sentimenti più che l’enormità della catastrofe. Forse è di questo che parliamo, quando parliamo di contagio: della nostra fragilità, del nostro bisogno di essere consolati, del perdono che potrebbe guarirci.