Quando si pensa alle
reducciones in America Latina, alle comunità di indios rette dai gesuiti tra il ’600 e il ’700, si pensa subito a quelle tra Argentina e Paraguay, alle cascate dell’Iguazù immortalate nel film
Mission. Meno note sono le
reducciones nell’attuale Bolivia orientale, in Chiquitania, la regione del dipartimento di Santa Cruz chiamata così, «terra dei piccoli», per le porte delle abitazioni incredibilmente basse che trovarono i primi missionari. Lì il lascito dei figli di sant’Ignazio è stato riportato alla luce a partire dagli anni ’70, senza eccessivo clamore, dal lavoro di antropologi e archeologi ma soprattutto dall’opera straordinaria dell’architetto svizzero Hans Roth, un ex gesuita scomparso nel 1999 che ha restaurato le principali chiese rimaste e ha raccolto reperti e documenti dell’epoca.A visitare l’«ultimo angolo di Paradiso», come lo chiamano i boliviani, è stato di recente anche
Mario Vargas Llosa, lo scrittore e intellettuale peruviano fresco di premio Nobel per la letteratura. Nei giorni scorsi ha pubblicato sul quotidiano di Lima
La Republica, un racconto di viaggio carico di emozione, perché si è reso conto di come l’impronta dei gesuiti, che rimasero in quei luoghi poco più di 70 anni, sia tutt’altro che scomparsa. «Le chiese belle, semplici, eleganti – scrive Vargas Llosa – non sono musei, testimonianze di un passato separato per sempre dal presente, ma sono prove palpabili del fatto che in Chiquitania quella storia continua vivificando il presente». Una di queste tracce indelebili riguarda la musica, uno dei principali mezzi con cui i gesuiti si approcciarono agli indigeni e li introdussero alla civiltà cristiana. Hans Roth è riuscito a recuperare quasi 5.000 spartiti originali di musica barocca rimasti in casse polverose, spesso fra le rovine. Oggi sono conservati nell’Archivio musicale di Concepción, catalogati e studiati da un religioso e musicologo polacco, il verbita Piotr Nawrot. «Le melodie e le composizioni che contenevano quelle partiture – scrive sempre Vargas Llosa – provenienti dal fondo dei secoli si ascoltano oggi in tutti i villaggi della regione, interpretati da orchestre e cori di bambini, giovani e adulti che le suonano e le cantano con la stessa disinvoltura con cui ballano danze ancestrali, aggiungendovi una convinzione e un’allegria emozionanti. Credenti o agnostici provano una strana e intensa sensazione quando nelle notti calde e stellate della selva
cruceña, là dove si trovano giaguari, puma, caimani e serpenti, avvertono che Vivaldi, Corelli, Bach, Cajkovskij e altri compositori italiani, tedeschi o russi sono anche
chiquitanos, perché le grandi creazioni artistiche non hanno nazionalità». E sono infatti numerosi, nota lo scrittore, i giovani di quella landa appartata e povera che ottengono borse di studio per frequentare i conservatori di Buenos Aires, Parigi, Vienna o Berlino. Ma la musica che ha impregnato la cultura indigena è stata
in primis veicolo del cristianesimo, spiega Vargas Llosa, «divenuto l’essenza di una spiritualità che si è conservata in questi secoli ed è diventata il fattore unificante di comunità che manifestano la loro fede partecipando in massa a tutte le celebrazioni: con i loro cacicchi in prima fila, ballando, cantando (a volte anche in latino!) e curando i luoghi e gli oggetti di culto con uno zelo infaticabile. A differenza del resto dell’America Latina e del mondo, dove la religione sembra occupare sempre meno la vita delle persone e il laicismo avanza, qui la religione resta a presidio della vita ed è, come nell’Europa medievale, l’ambiente in cui si nasce, si vive e si muore». Però sarebbe ingiusto considerare i
chiquitanos fermi al passato: la modernità è più che presente nei villaggi con le scuole, i cellulari, internet, le tecniche per lavorare la terra ecc. E qui sta per lo scrittore la prova del successo dell’inculturazione della fede operata dai gesuiti, che avrebbe pochi paragoni anche nel resto del continente: la sintesi mirabile tra radici indigene e cultura occidentale, non l’assorbimento delle prime da parte della seconda. «In America Latina, dove il problema si vive in termini drammatici in almeno una mezza dozzina di Paesi, abbiamo il dovere di trovare un modello che renda possibile, in termini pratici, un atto di giustizia», ossia un equilibrio tra Occidente e culture autoctone. «Nei villaggi chiquitani c’è una lezione feconda per chi vuole vedere e sentire: gli uomini e le donne di questa terra non hanno perso quella che si chiama la loro identità». Così come la loro lingua, che resta «loro» a tutti gli effetti anche se fu in realtà una sintesi operata dai missionari tra gli idiomi di tribù che spesso non riuscivano nemmeno a comunicare fra loro.