mercoledì 19 ottobre 2011
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Da cenerentole del sistema museale italiano a centri attenti all’innovazione e alle competenze. Sono i musei ecclesiastici. Un esercito di oltre un migliaio di realtà che comprende raccolte d’arte, etnografiche, naturalistiche, missionarie, grandi istituzioni legati a cattedrali e ordini religiosi come a piccole realtà parrocchiali. Che si riuniscono da oggi a venerdì a Trento in un convegno dal titolo L’azione educativa per un museo in ascolto, dedicato alle servizi per la didattica. È l’ottavo ad essere organizzato dall’Amei, l’Associazione dei Musei Ecclesiastici Italiani.«C’è stata quest’anno una reazione straordinaria: oltre 250 iscritti da tutta Italia – racconta Domenica Primerano, responsabile del Museo Diocesano tridentino, che ospita l’evento –. All’ultimo convegno, due anni fa, i presenti erano solo 70, inclusi i relatori. Significa che abbiamo rilevato un punto sensibile, quello della didattica museale. Ma è anche sintomo del fatto che nei musei di arte sacra si stia sviluppando una coscienza diversa. Si stanno affacciando giovani talenti, per i quali competenza e formazione sono importanti. E sono sempre meno le realtà per le quali la fede è elemento sufficiente per lavorare in un museo diocesano».Il convegno è stato anticipato da un questionario sulle attività didattiche a cui hanno risposto 170 realtà e che fotografa lo stato della questione nei musei religiosi italiani. «È una ricerca mai effettuata prima – spiega la Primerano –, da cui risulta che il 70% dei musei fa attività educativa. Ma scendendo nel dettaglio si nota che in molti casi è fatta da personale volontario senza formazione specifica. Il rischio è che gli sforzi siano inutili. Lo scopo di questo convegno è di fornire unità di impianto teorico e suggerire buone pratiche condivise». La presenza massiccia è significativa della volontà di cambiamento per allinearsi agli standard più elevati.Come a Trento, realtà tra le più antiche in Italia (fondato nel 1902, ancora in pieno Impero Austro-Ungarico) dove l’aspetto educativo è centrale fin dagli albori: nacque infatti come aula didattica del Seminario teologico. «Qui abbiamo ogni anno 11mila presenze legate ai servizi educativi. Scuole, famiglie, adulti. Abbiamo anche progetti specifici a lungo termine, come quello che coinvolge i pazienti del centro di salute mentale. Ma a noi più che i numeri interessa un servizio di qualità, che trasformi ogni visita in un’esperienza». «Attraverso la didattica i musei si aprono ai pubblici più vari, di cui devono intercettare le esigenze» dice monsignor Giancarlo Santi, presidente di Amei e già direttore dell’Ufficio per i beni culturali della Cei. «C’è chi non entra in chiesa ma entra in un museo diocesano. Ma chi pensa che la didattica sia la catechesi sbaglia percorso. La sfida è come essere fedeli alla vocazione pastorale senza chiudersi in un recinto. Questi musei sono istituzioni culturali ecclesiastiche: il loro compito è formare a una sensibilità corretta nei riguardi del patrimonio dell’arte e alla vita buona del Vangelo». Che il mondo museale ecclesiastico («ma diciamolo una volta per tutte – afferma Santi – tra un museo civico e uno diocesano cambiano solo nome e “proprietà”, perché il contenuto è in gran parte di opere di arte sacra. La differenza sta nell’approccio. La debolezza è loro, perché decurtano le opere di contenuti essenziali») sia in fermento lo dicono anche cifre e dati: «Se si considera che la maggior parte è nata 30 anni fa e che in occasione del Grande Giubileo c’è stata un’esplosione, i numeri sono ancora più significativi. Ora se ne inaugurano, o re-inagurano, dieci all’anno. I diocesani sono arrivati a quota 230. L’ultimo, aperto a luglio, è quello di Melfi. Ma almeno 60 sono in progettazione e allestimento». Sono maggiori delle diocesi perché alcune hanno più di un museo: ne sono nati infatti anche di sedi episcopali estinte o accorpate, diventandone custodi della memoria e dimostrando un vivo senso della storia. Ma, sotto un altro aspetto, il proliferare di musei è indice dell’acceso territorialismo che caratterizza passato e presente d’Italia: «È lo specchio di una problematica che si riflette anche a livello ecclesiale. E infatti il vero punto debole dei musei ecclesiastici è la difficoltà di fare rete. Sono numerosi, vivaci, ma invisibili. Messi insieme sarebbero la rete museale più grande d’Europa. Una potenza da milioni di visitatori. L’Amei fa coordinamento, ma non posso nascondere che non sempre sia facile. Si resta legati ai propri contesti, ben isolati. C’è persino difficoltà a far interagire museo e archivio diocesano. Occorre sempre più una visione integrata».Una visione integrata che è propria di chi fa didattica in un museo: «Bisogna saper guardare un’infinità di cose e mettere in campo lo strumento più idoneo. Un’azione educativa si può fare sempre, non richiede grandi mezzi se non la sapienza di chi la fa», dice Cecilia De Carli, direttrice del master in Servizi educativi del patrimonio artistico dell’Università Cattolica. «Una buona didattica trasforma la collezione di un museo in una realtà viva perché instaura un rapporto nuovo con le opere. Un’esperienza che spesso emerge a distanza. E che diventa patrimonio costitutivo di una personalità». Da stanze per raccogliere le tracce del passato a musei che lasciano l’impronta.
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