martedì 8 novembre 2011
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​Dalla Rivoluzione francese alla fine del secondo conflitto mondiale, la guerra era normalmente considerata un modo legittimo ed efficace di favorire l’interesse delle nazioni, e di conseguenza la guerra e la sua effettiva conduzione erano due degli avvenimenti più importanti nella vita di qualsiasi Stato». Questa considerazione, che apre l’ormai classico Soldati e borghesi nell’Europa moderna, di John Gooch, tradotto più di trent’anni fa da Laterza, deve essere sempre tenuta presente dal lettore del nuovo, ponderoso saggio dello storico britannico: Mussolini e i suoi generali. Forze armate e politica estera fascista 1922-1940, (pagine 764, euro 45,00), appena pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana. Oggi, infatti, la prospettiva è cambiata: alla guerra si sostituisce la "missione di pace" e all’invasione di un territorio si preferisce il "bombardamento chirurgico"; ma la realtà, allora, era diversa, e alle guerre commerciali, finanziarie e informatiche di oggi, si preferivano quelle vere, combattute con uomini e mezzi consapevolmente sacrificati in nome di ideali ritenuti condivisi da tutta la nazione. Fatta questa doverosa premessa si può apprezzare appieno il grande sforzo di John Gooch per ricostruire dettagliatamente i piani dell’esercito, della marina e dell’aeronautica militare italiani nello sviluppo della politica estera dell’Italia fascista, a partire dalla Marcia su Roma del 1922, fino alla dichiarazione di guerra del 1940, attingendo soprattutto a documenti custoditi negli archivi delle Forze Armate. Lo scopo dell’autore, dichiarato esplicitamente sin dall’introduzione, è di capire quale delle due principali scuole storiografiche abbia ragione, se quella anglosassone, guidata da Denis Mack Smith, che considera la politica estera fascista «un gigantesco bluff attuato da un millantatore borioso e incompetente», oppure se hanno ragione Renzo de Felice e i suoi discepoli, che al contrario giudicano il Duce «una persona concreta, intraprendente e politicamente abile», che cercò di mantenere il più a lungo possibile l’Italia in equilibrio tra i giochi delle grandi potenze europee. La conclusione, come era prevedibile, porta a un compromesso: la politica estera di Mussolini non era né casuale né generica, come talvolta è stata descritta, e soprattutto ha sempre avuto in mente obiettivi conformi al credo fascista; ma, nonostante la sua indiscutibile abilità, il Duce ha confidato troppo nel suo istinto, che spesso gli consigliava di evitare lo scontro con la realtà effettiva, preferendo le visioni edulcorate dei suoi adulatori e lasciando insoluti i nodi relativi alle conseguenze della diarchia Duce-Sovrano. Quando prende il potere, Mussolini si trova a gestire un esercito antiquato, guidato da vertici monarchici e massoni che guardano al fascismo con ricambiato sospetto. Poco alla volta, Mussolini intraprende il compito di riformarlo, per fascistizzarlo (a partire dal 1933) e renderlo adatto ai nuovi scenari bellici, che lui identifica soprattutto contro la Francia e la Jugoslavia. Come capo militare, Mussolini, per quanto abile, non riesce a dare un’impronta netta alla strategia dell’esercito, diviso tra rivoluzione e conservazione; tra le pulsioni ideologiche del Partito, espresse ad esempio da Farinacci e Bottai, che per ragioni diverse disprezzavano egualmente i generali di carriera, attenti solo a conservare i loro privilegi, e la politica estera ufficiale, guidata in modo abbastanza tradizionale da Galeazzo Ciano, che assecondava la miopia dei vertici delle Forze Armate, assolutamente refrattari a sposare una linea di condotta comune. Ma l’errore più grande di Mussolini, come sottolinea correttamente Gooch, è non capire che i tempi sono cambiati, e che più del valore individuale dei soldati, in una guerra moderna contano le risorse industriali e economiche. Quando il ministro delle finanze Paolo Ignazio Thaon di Revel, gli sottopone le sue preoccupazioni per le riserve monetarie inadeguate ad affrontare lo sforzo bellico, il Duce gli risponde incautamente dichiarando che «gli Stati non crollano per debiti, ma solo per una disfatta o per dissoluzione interna». Si sbagliava.
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