«Noi leccesi siamo barocchi fino nell’anima». Sembra quasi un’ammissione di colpa quella di Antonio Romano. Eppure si fa fatica a pensarlo “barocco”. Soprattutto quando si osservano i marchi (o brand, come preferisce chiamarli) che lui, designer dal tratto essenziale, ha creato in più di trent’anni di attività col suo studio Inarea. Centinaia di loghi entrati nell’immaginario italiano con la loro forza di persuasione: dalla farfallina Rai al quadrato della Cgil passando per i marchi di Tim o Edison.
«Vorrei partire da una premessa che in Salento è quasi un gioco». Prego architetto. «In genere dico: “Sono di Lecce”. Ma un leccese di città domanderebbe subito: “Lecce Lecce?”. Ebbene, no. Non sono di “Lecce Lecce”. Sono della provincia, essendo nato a Maglie». Ma Maglie è a trenta chilometri dal capoluogo. «Lì vive mia mamma. Ogni mese ci torno. Ma ho lasciato il Salento quasi quarant’anni fa». Una mente in fuga. «Come molti emigrati guardo la mia terra con occhi romantici. Quando negli anni Settanta parlavo del Salento a Milano, molti mi domandavano: ma dove sta?». Invece oggi va di moda. «Ed è una benedizione. Prendiamo il caso delle masserie: erano l’emblema della povertà delle nostre campagne. Sono state abbandonate quando i contadini si sono trasferiti al Nord o fuori Italia per diventare operai. Poi è successo che una certa borghesia del Settentrione ha scoperto il Salento e ha cominciato a comprare questi complessi rurali recuperandoli. Se oggi dico masserie, nessuno le associa più all’indigenza».
Anche “Lecce Lecce” è risorta. «Facendo una passeggiata nel centro storico, troviamo decine di locali di giovani neo-laureati che hanno deciso di restare e di dedicarsi ad attività che un tempo erano prerogativa di persone poco alfabetizzate. In questo loro coraggio c’è l’abilità di convertire il substrato acquisito e di integrare la tradizione con i linguaggi contemporanei».
È un po’ la sfida della Capitale europea della cultura. «Sa qual è la differenza fra un meridionale e un settentrionale? Non certo l’intelligenza. Anzi, gli uomini e le donne del Sud dispongono di doti straordinarie. Il problema è che il pensiero esaurisce l’azione». Eppure il nostro Sud può parlare a tutto il continente. «Il Nord Europa – sostiene il designer – ha bisogno di relazioni più tattili che sono proprie dell’uomo mediterraneo. Tutto ciò renderebbe quel mondo meno legato alle forme e alla freddezza. Lavorando in Germania, posso dire che, se siamo precisi e puntuali, piacciamo molto ai tedeschi perché riusciamo a sorprenderli».
A proposito come descriverebbe Lecce a un collega estero? «La luce dà l’impronta al Salento, mentre il Barocco è l’elemento linguistico che caratterizza il territorio. Tra l’altro il Barocco leccese non è di stucchi ma di pietra. Aggiungo un’altra peculiarità. Osserviamo la Basilica di Santa Croce: la sua facciata è come un merletto. Ciò fa ritenere che all’interno si trovi una ricchezza equivalente. Invece le navate sono asciutte e linde. Questo contrasto è uno specchio del nostro modo di essere». Un’identità complessa, la vostra. «Certo, come dimostra anche l’architettura del paesaggio disegnata dagli ulivi. Che sono autentiche sculture naturali ma anche simboli eloquenti della contorsione psicologica che caratterizza noi salentini, incapaci di vivere gli eventi secondo una logica lineare ma al tempo stesso in grado di impensabili guizzi creativi».
Questa è la terra dei ritmi dilatati. «C’è un brano di un cantautore locale, Mino De Santis, che mi commuove ogni volta che lo sento. Dice Salentu lentu lentu. In queste parole c’è la nostra essenza». Che piace in fin dei conti. «Però arriva il momento in cui serve un incoraggiamento. Ecco, il Sud ha bisogno di prendere coscienza delle sue potenzialità. Mettiamo al bando il lamento e le logiche assistenzialiste. Occorre essere ingegneri del nostro futuro. E la Capitale della cultura può aiutare».