Prolifico scrittore, giornalista e direttore di riviste femminili, Giorgio Scerbanenco, nato il 26 luglio 1911 a Kiev, in Ucraina, ma di adozione e formazione milanese, è considerato il padre del noir italiano. Leggendo i suoi romanzi che raccontano con un ritmo da thriller cinematografico storie efferate e crudissime dove dominano ladri, assassini e traditori, o carabinieri «innaffiati di proiettili», non può sfuggire la discrezione con la quale si rivolge al lettore. Un garbo inaspettato nella letteratura di genere. Scerbanenco è sempre diretto, ha uno stile asciutto, senza sfumature. Eppure traspare nel suo scrivere una passione per la vita e per il destino dell’uomo. C’è quasi la sottile, implicita ricerca di un “Oltre” nel rappresentare “con amore” fatti truci e personaggi abietti. Viene da chiedersi quale rapporto avesse con la fede, l’autore di
La sabbia non ricorda e
I ragazzi del massacro. Il centenario della nascita ci offre, allora, l’occasione per tentare una risposta. A partire dalle sue vicende umane e professionali.Con la solita eleganza anticonvenzionale Scerbanenco rispondeva alla posta delle lettrici sui settimanali “Annabella”, “Novella” e “Bella”. Una volta gli capitò la missiva, anonima e senza indirizzo, di una madre ventenne alla quale era morto l’adorato marito. Il suo bambino continuava a chiamare papà e per tranquillizzarlo lei si affacciava ogni giorno alla finestra tenendolo in braccio e fingendo un’inutile attesa. Così il bimbo si calmava un po’. Ma la ragazza non era più in grado di reggere quell’assurda situazione e confessò ad Adrian (lo pseudonimo usato dallo scrittore nella rubrica) l’intenzione di morire insieme con il piccolo. «Rilessi per quattro volte la lettera, nel punto principale, intorno a quel “vorrei morire” - ricorda Scerbanenco nell’autobiografia
Viaggio in una vita - poi cominciai a scrivere la risposta da pubblicare sul giornale». Tanta gente dice, in un momento di sconforto o per puro esibizionismo, che vorrebbe suicidarsi. Scerbanenco lo sapeva. Si era accorto però che quella donna aveva usato parole «con il tono lucido di chi ha già deciso e non può, anche se lo volesse, tornare indietro». Si sentiva - ha raccontato - «come chi vuole mettere una mano davanti a una locomotiva in corsa». Ma ci provò. Pur sapendo che in questi casi contano di più una voce calda, un abbraccio, una carezza. «Mandai subito la riposta in tipografia - ricorda lo scrittore - la feci pubblicare con precedenza assoluta… ma dovevano passare giorni prima che venisse stampata e che la donna potesse leggere la mia risposta che tentava di fermarla. Se mai avesse potuto leggerla». Scerbanenco non seppe nulla della giovane per mesi finché da un ritaglio di stampa non apprese che a un processo i giudici avevano assolto una mamma che prese troppo sonnifero somministrandone anche al bambino: lei si giustificò dicendo che non riusciva a dormire da quando le era morto il marito. Lo scrittore capì che era lei. Viva. Anche se la sua lettera, che di sicuro aveva letto perché venne esibita in tribunale, non era riuscita a fermarne il proposito. Forse, però, lo aveva affievolito.Un caso simile gli si presentò più avanti: una signora di una certa età, sola e delusa per un amore finito male, manifestò l’intenzione di uccidersi. Aveva dato nome e indirizzo e “Adrian”, caparbiamente, le scrisse, più volte, in privato (senza ricorrere al giornale), per farla recedere dalla decisione. E vi riuscì, stavolta, lentamente, sentendo piegare a ogni risposta il suo desiderio di morte. Lui, che aveva sofferto e visto gli orrori della guerra, sapeva dare un valore alla vita. E la difendeva. Senza sottrarsi al compito di raccontare la morte voluta dall’uomo che fugge da se stesso. Perché, diceva, «la vita è un pozzo delle meraviglie; c’è dentro di tutto: stracci, brillanti e coltellate in gola».Ma per comprendere meglio quel tormento che sembrava muovere l’anima dello scrittore, è necessario addentrarsi nel saggio sulla condizione umana
Il mestiere di uomo, in cui Scerbanenco indaga su speranza, felicità, libertà, dignità, coscienza morale e destino. Il volume (edito in Italia da Aragno) raccoglie il carteggio con un parroco di Poschiavo, don Felice Menghini, e gli articoli scritti su un periodico cattolico dei Grigioni durante il suo esilio volontario in Svizzera per sfuggire ai fascisti. Il rapporto con il sacerdote diventa così intenso e affettuoso che don Felice afferma di avere spiritualmente vicino il suo sensibilissimo amico romanziere. Alla fine di un fitto scambio epistolare, nel quale il prete cerca di portarlo sul terreno della fede, Scerbanenco, che prima si dichiarava agnostico, arriva a dire: «La fede non si raggiunge con la dialettica, e neppure la verità, qualunque essa sia. Occorre la Grazia, come mi disse lei e imparai subito. (...) Ma la Grazia non può operare finché la vita è una lotta a coltello». Tanto da scrivergli, in occasione della Pasqua: «Il Signore è con lei. Ma è pure con me, anche se io dico di non saperlo. Egli deve essere con tutti gli uomini». E, ancora, otto mesi dopo: «Carissimo, il suo libro da messa è con me, e lo trovo sempre più bello. Io abito vicino al Duomo e basta che scenda perché veda la chiesa e la Madonnina, e allora vedo anche lei e le suore di San Sisto che ricordo tutte, una a una...».Un passaggio della sua autobiografia è dedicato all’anima: «Per tutta la vita guardiamo il viso degli altri e li giudichiamo. Ma dopo 40 anni vissuti senza freni e in modo dissoluto un tale si converte. Sul suo viso sono impressi i segni dell’immoralità e del cinismo. Eppure ora egli è morale e devoto. Se guardassimo solo il volto ce ne allontaneremmo. Ma ascoltiamo la ragione e ne diventeremo amici».
LA VITAFiglio di un principe russo e di una borghese romana, Giorgio Scerbanenco fu battezzato due volte. Prima a Kiev, nella cattedrale di Santa Sofia, con rito ortodosso, poi, per volere della famiglia materna, a Roma, con rito cattolico. Rimasto presto orfano di entrambi i genitori (il padre fu fucilato dai bolscevici), Wladimir Giorgio, che nel frattempo si era trasferito a Milano, fu costretto a lavorare a 16 anni. Fece il tornitore, poi il magazziniere, l’autista di ambulanze, il tipografo, il correttore di bozze. Finché non diventò giornalista e direttore di giornali femminili. La sua attività di scrittore spazia dalla letteratura rosa alla fantascienza, dal western alle spy stories. Ma è nel giallo che Scerbanenco eccelse, con decine di titoli di successo tra cui “I milanesi ammazzano il sabato” e “Traditori di tutti”. I francesi lo hanno definito “Il Simenon italiano”.