Magari è da una vita che ve lo chiedete, magari non ci avete mai pensato prima. Fatto sta che, qualora incontraste un elfo, non potete limitarvi a dargli semplicemente la mano. Una minima inclinazione del palmo può assumere significati diversi, e c’è una bella differenza tra uno scambio di saluti casuale e un benvenuto in grande stile. Sottigliezze che è bene conoscere, se si ha la ventura di viaggiare attraverso la Terra di Mezzo. Perché sì, J.R.R. Tolkien aveva pensato anche a questo. E a un’altra infinità di dettagli, continuamente perfezionati anche dopo che Il Signore degli Anelli si era rivelato un best seller. A quel punto, di solito, quel che fatto è fatto, non ci si perde più in questioni di coerenza interna. Tolkien, invece, non ha mai smesso di rifinire il suo mondo immaginario, come dimostrano gli scritti ora raccolti nel volume La trasmutazione del pensiero e la numerazione degli elfi, curato da Roberto Arduini e Claudio Antonio Testi per Marietti 1820 (pp. XXII+150, euro 19). Dove si chiariscono varie questioni relative al linguaggio dei segni, certo, ma si ha anche modo di precisare la nozione di óre, che è il «cuore», ossia la dimensione interiore, ciò che rende persona una persona. O, se si preferisce, uomo un uomo, hobbit un hobbit, elfo un elfo. Giochi da filologo, si dirà, quale Tolkien era per vocazione, formazione e professione. O, meglio, giochi da teologo. Serissimi, in entrambi i casi. A ribadirlo, una volta di più, è il saggio del critico britannico Stratford Caldecott, che Lindau porta ora in libreria con il titolo Il fuoco segreto (traduzione di Diana Mengo, pp. 194, euro 19). Una serrata indagine sulla «ricerca spirituale di J.R.R. Tolkien», come avverte il sottotitolo, condotta facendo perno su una metafora particolarmente suggestiva, quella della misteriosa fiamma di cui il mago Gandalf si proclama custode in uno dei momenti più drammatici del Signore degli Anelli. L’immagine si adatta in modo perfetto al «cristianesimo implicito» che, per ammissione dello stesso Tolkien, rappresenta la vera fonte di ispirazione del romanzo. E così, anche se il lettore sembra poco o nulla informato delle credenze religiose diffuse nella Terra di Mezzo (ma non bisogna dimenticare il complesso patrimonio di miti consegnati al Silmarillion e a tante annotazioni successive), le vicende di Frodo e dei suoi compagni sono esattamente riconducibili all’architettura teologica del cattolicesimo. L’aspetto più interessante del saggio di Caldecott, del resto, sta nel suggerire un’interpretazione sacramentale del Signore degli Anelli, con riferimenti puntuali e ripetuti all’Eucaristia e allo stesso matrimonio, in un continuo intreccio fra la trama romanzesca e la biografia di Tolkien. Il sacramento, in questa prospettiva, è conseguenza diretta del mistero dell’incarnazione, l’avvenimento cosmico decisivo la cui portata viene estesa a ogni possibile dimensione dell’umano attraverso la costruzione di un universo fantastico. Da qui, appunto, la necessità di non cadere mai in contraddizione, di allestire mappe credibili, redigere grammatiche affidabili, elaborare lingue che rimandino al mistero originario della musica che crea la realtà. Documentato e convincente, il libro di Caldecott segue di poco tempo la pubblicazione di un altro contributo alla comprensione della teologia tolkieniana, vale a dire L’Anello e la Croce di Andrea Monda (Rubbettino, pp. 252, euro 12), che risulta forse ancora più preciso nell’analisi dei singoli personaggi. Quella di Monda, in effetti, è un’esegesi di tipo cristologico prima che sacramentale. Il punto di forza è costituito dall’intreccio di relazioni che rendono pressoché speculari le figure di Frodo – l’hobbit che accetta di prendere su di sé il peso dell’Unico Anello in modo d permetterne la distruzione – e Gollum, la mostruosa creatura ossessionata dalla brama per il «tesssoro» perduto. Frodo ha molti tratti del Cristo, ma anche qualcosa in comune con Gollum. Il quale, a sua volta, finisce per rivestire un’inattesa funzione salvifica. Di sicuro, come osserva anche Caldecott, nel momento decisivo, quando Frodo si trova a non scegliere, rischiando così di vanificare l’intera impresa alla quale hanno partecipato tutti i popoli della Terra di Mezzo, è il derelitto Gollum ad assumere l’iniziativa, precipitando insieme con l’Anello nelle fiamme del Monte Fato. Un gesto definitivo, che sarebbe stato impossibile se in precedenza Frodo, mosso dalla pietà, non avesse risparmiato al vita a Gollum. In tanta abbondanza di eroi e antieroi (come dimenticare la figura maestosa di Aragorn, in cui si riverbera la regalità di Cristo?), a suscitare maggior simpatia è però il «cristiano semplice» Sam Gangee, il servitore fedele di Frodo, oltre che suo amico appassionato. In lui Tolkien pare aver voluto esaltare le doti dell’Everyman medievale: l’Ognuno che, nella sua umiltà, è tutti e ciascuno. Destinato alla salvezza e portatore di misericordia, consapevole di non essere degno di custodire il «fuoco segreto», ma non per questo refrattario alla disciplina semplice e necessaria che viene dalla radice del cuore. Anzi, dell’óre. L’ultima fotografia conosciuta di J.R.R.Tolkien (1973), autore della saga del «Signore degli anelli» Il protagonista Frodo L’ambiguo hobbit Gollum