Qualche mese dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001, Charles Kupchan pubblicava
La fine dell’era americana (Vita e Pensiero), un testo, dal titolo piuttosto significativo, che doveva alimentare anche in Italia un dibattito piuttosto acceso. Le ipotesi di fondo di Kupchan erano sostanzialmente due. La prima era che l’"era americana", iniziata con l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale, fosse ormai vicina alla conclusione. La seconda era però ancora più radicale. Il principale sfidante della potenza americana, agli occhi di Kupchan, non era infatti la Cina, la cui ascesa avrebbe richiesto diversi decenni, ma l’Unione Europea. Proprio per questo, Kupchan prevedeva l’imminente divisione dell’Occidente e lo scioglimento della lunga alleanza fra America ed Europa. In questa chiave, l’analogia era senz’altro suggestiva. Washington, come Roma dopo il III secolo d.C., pareva ormai avviata a perdere il controllo sui territori d’Oriente. Mentre Bruxelles sembrava destinata a indossare invece i panni della nuova Bisanzio. A diversi anni di distanza, nel suo nuovo libro
How Enemies Become Friends ("Come i nemici divengono amici", Princeton University Press), Kupchan si confronta con la necessità per gli Stati Uniti di adeguare la strategia al nuovo scenario. E coglie anche l’occasione per correggere il tiro su alcune previsioni.
Professor Kupchan, quando molti parlavano di "momento unipolare", lei sosteneva invece che l’era americana stava finendo. Oggi, meno di dieci ani dopo, siamo già in un’era post-americana?«Quando ho pubblicato La fine dell’era americana, la mia voce era piuttosto isolata. La maggior parte degli analisti, allora, riteneva che l’era unipolare sarebbe durata per decenni. Oggi invece è ormai diventata un’opinione comune l’idea che il mondo unipolare stia procedendo rapidamente nella direzione del multipolarismo. Personalmente ritengo che ci troviamo a vivere una transizione storica estremamente delicata. Il periodo dell’egemonia americana sta volgendo al termine, ma il nuovo ordine deve ancora prendere forma. La sfida principale consiste allora nell’affrontare questa transizione in termini adeguati. In particolare, consentendo che il passaggio dal vecchio ordine a quello che ci attende nel prossimo futuro avvenga nel modo migliore possibile. Oltre che, soprattutto, nel modo più pacifico».
Ne "La fine dell’era americana", lei riteneva che Bruxelles potesse essere una sorta di nuova Bisanzio, e che l’Occidente fosse destinato a dividersi in due, come era avvenuto per l’Impero romano dopo il III secolo d.C. Oggi però l’Unione Europea attraversa una crisi politica piuttosto profonda. La sua previsione è ancora valida? L’Ue potrà essere realmente una nuova Bisanzio?«Col senno di poi, sono stato un po’ troppo ottimista a proposito dell’Unione Europea. In effetti, l’Ue sta vivendo una fase piuttosto preoccupante di "rinazionalizzazione", che non può che rimettere in discussione la stessa durata del progetto di integrazione. Ciò nonostante io rimango cautamente ottimista sul futuro. Penso infatti che l’Europa si riprenderà e che riconquisterà lo slancio smarrito negli ultimi anni. Tuttavia, sarà indispensabile una leadership nuova e forte. Proprio quella leadership che oggi mi pare del tutto assente».
La Russia è ancora un "nemico"? Quali saranno i suoi rapporti con l’Occidente?«Il riavvicinamento tra la Russia e gli Stati Uniti sta procedendo negli ultimi anni in modo piuttosto spedito. Inoltre, i rapporti fra la Russia e l’Unione Europea hanno imboccato una traiettoria positiva. Sicuramente la Russia non è più un nemico, ma bisogna aver presente che non può essere ancora considerata come un "amico fidato". Ovviamente negli anni Novanta l’esclusione della Russia dalla Nato aveva solide motivazioni. Oggi penso invece che sia necessario ripensare all’eventualità di un ingresso della Russia dalla Nato, perché l’alleanza atlantica potrebbe uscire rafforzata proprio grazie all’inclusione di Mosca».
La Cina è già diventata una grande potenza? E la sua ascesa economica comporterà una ridefinizione dei rapporti con le altre potenza presenti in Asia?«La Cina è sicuramente una potenza in ascesa, ma il suo futuro è piuttosto incerto. Finora, la leadership cinese ha adottato una linea politica molto accorta, perché ha puntato a guidare il Paese verso una sempre più elevata prosperità economica, ma, al tempo stesso, senza manifestare quelle ambizioni geopolitiche che potevano minacciare i vicini. Solo il tempo potrà dire però se la Cina sarà in grado di continuare la propria ascesa pacificamente. O se invece finirà con l’adottare un atteggiamento più aggressivo. Che, ovviamente, innescherebbe una nuova competizione in Asia orientale».
La fine di un’egemonia è spesso accompagnata dal ritorno della guerra. Ci attende anche oggi una fase di instabilità paragonabile a quella che scaturì dalla fine dell’egemonia britannica, dopo la Prima guerra mondiale?«Almeno per ora, le grandi potenze continuano ad avere delle relazioni stabili. Le principali minacce per la pace provengono infatti dagli Stati deboli, e non da quelli forti. Resta naturalmente da vedere se l’armonia fra le grandi potenze continuerà ancora quando il mondo sarà diventato più multipolare di quanto non sia oggi. Si può ipotizzare che, grazie a due fattori come la globalizzazione e gli armamenti nucleari, e insieme alla diffusione della democrazia, la transizione che ci attende si compirà in modo relativamente pacifico. Ma, dopo che si sarà effettivamente concluso il processo di redistribuzione della potenza, è anche possibile che abbiano inizio nuovi giochi per la sicurezza e che prendano corpo nuove rivendicazioni di status. È in questa prospettiva che diventa indispensabile pensare a nuove istituzioni, in grado di limitare la conflittualità. E, come ci ricorda la storia, ogni efficace ricostruzione postbellica richiede l’inclusione, nelle nuove istituzioni, proprio dei vecchi nemici».