«Non è colpa mia se gli effluvi dei ceneratoi, delle erbacce e delle frattaglie si annidano intorno alle mie storie. Era mia intenzione scrivere un capitolo della storia morale del mio paese, e l’ho ambientata a Dublino perché quella città mi pareva il centro della paralisi». È il maggio del 1906 quando l’editore londinese Grant Richards si vede recapitare una colorita lettera nella quale James Joyce difende i racconti ancora inediti della sua raccolta
Dubliners e spiega, col suo caratteristico stile, le ragioni del suo rifiuto a compromettere il testo originale. «Credo sinceramente – sostiene lo scrittore, ancora ben lontano dalla fama planetaria – che in Irlanda si rallenterebbe il corso della civilizzazione impedendo alla gente di guardarsi attraverso il mio specchio ben lustro». Joyce voleva mostrare la caduta dei valori morali della popolazione di Dublino, e intendeva farlo raccontando storie di vita quotidiana focalizzate su due aspetti: la paralisi morale causata dalla politica e dalla religione dell’epoca e poi la conseguente fuga, destinata a un’ineluttabile fallimento.Gli ci sarebbero voluti altri otto anni per convincere un editore a pubblicare il libro così com’era. L’opera, uscita nel giugno del 1914 e tradotta in italiano per la prima volta nel 1933 col titolo
Gente di Dublino, era destinata a diventare un classico della letteratura del ’900, a trasformarsi in oggetto di culto per gli appassionati e di ricerca per gli studiosi. Tanto che oggi, nel centenario della prima pubblicazione, la casa editrice Tramp Press ha fatto uscire
Dubliners 100, un’antologia di nuove storie ispirate ai quindici racconti di Joyce, ciascuna delle quali è stata scritta da un autore irlandese contemporaneo con l’idea di offrire una rilettura dell’originale. Il progetto è stato lanciato un anno fa e ha visto adesioni di spicco: la prima è stata quella di John Boyne, autore del bestseller
Il bambino con il pigiama a righe, che si è cimentato in una rilettura di “Arabia”. Pat Mc Cabe (autore di
Il garzone del macellaio e
Colazione su Plutone, entrambi portati sul grande schermo da Neil Jordan) ha riscritto invece “Le sorelle”. Poi sono arrivati, tra gli altri, i contributi di Donal Ryan – uno degli autori irlandesi più quotati dell’ultima generazione –, di Eimear McBride e Paul Murray, di Belinda McKeon e Michelle Forbes. Ma la sfida più ardua, tra i quindici, è toccata senza dubbio a Peter Murphy, con la riscrittura del racconto conclusivo del libro, “I morti”, considerato un capolavoro della letteratura contemporanea.
Dubliners 100 è un’operazione curiosa, se si pensa che a lungo gli scrittori irlandesi hanno dovuto fare i conti con il fantasma di James Joyce, ma rappresenta forse anche un modo per attualizzarne, se non proprio per esorcizzarne, l’ingombrante eredità. Non si tratta del primo tentativo di riscrivere la raccolta di racconti di Joyce tuttavia, nonostante le inevitabili critiche degli studiosi, appare al momento la più sincera e credibile.Ciascun racconto si apre con gli incipit originali e cerca di conservarne lo stile riproducendolo con un linguaggio più moderno. Per accostarsi a Joyce non era necessario solo confrontarsi con la forma, e quindi con la sua intensità etica ed estetica e con la sua integrità stilistica e strutturale, ma anche misurarsi con il contenuto di un’opera, come
Dubliners, che era incentrata sui problemi sociali dell’epoca. Era dunque indispensabile trovare nell’attualità un fulcro attorno al quale far ruotare le storie rivisitate. Comprensibilmente, questo è stato individuato nel recente fallimento del modello economico della Tigre celtica e nel declino culturale tipico dell’era della globalizzazione, cui molte delle nuove storie fanno riferimento. È il caso, per esempio, del racconto “Pensione di famiglia” riscritto da Oona Frawley e incentrato sulla storia di un marito irresponsabile dedito alla pornografia online; della versione di “Una madre” di Elske Rahill, che descrive la vuota vanità di una giovane casalinga e della rilettura del racconto “La grazia” ad opera di Sam Coll, con un gruppo di scrocconi come protagonisti. Un ritratto delle debolezze e degli eccessi della classe media irlandese nel Terzo Millennio che, condito da una satira amara e beffarda, avrebbe probabilmente fatto sorridere lo stesso Joyce.