domenica 6 settembre 2009
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Il peccato capitale della gola ha avuto conseguenze epocali nel panorama occidentale dell’alimentazione, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Come tutti i divieti, porta con sé il doppio effetto/difetto di trovare adepti fin troppo entusiasti da un lato, e dall’altro fomentare gli incalliti dell’infrazione, quasi che l’azione peccaminosa sia rivestita di maggior appeal in sé, proprio perché vietata [...]. Eccesso nell’abbondanza, ma anche nella privazione. Da un lato il cibo, in epoca medievale, era segno di opulenza e potere. Il potente poteva mostrare la sua forza e la sua attitudine al comando attraverso la sua capacità di ingerire molto cibo e di bere molto. L’eccesso opposto, quello della privazione, era inteso come segno di perfezione e santità: le pratiche ascetiche degli eremiti che mortificavano il proprio corpo con la fame, convinti che il piacere fisico allontanasse lo spirito e conducesse al peccato. Il piacere più subdolo – insieme a quello del sesso, cui era intimamente legato – era per l’appunto quello della gola, in quanto meno eludibile di altri: una volta conosciuta la vita, si è indotti ad apprezzarla e percorrerla fino in fondo. Dall’emarginazione del piacere nell’universo dei valori positivi e dalla sua sostituzione con l’eccesso, deriva poi la frattura del binomio piacere-salute. Le ragioni della salute acquistano una preminenza inedita e la scienza dietetica assurge a principale protagonista della letteratura intorno al cibo. Oggi sono passati più di cinque secoli e l’odierna schizofrenia non ha fatto che riplasmare, peggiorandola, la filosofia medievale dell’eccesso. Il piacere alimentare è stato rimosso, ci si mortifica a tavola, negandosi vino e ghiottonerie, con il miraggio di apparire sempre più immuni e perfetti. Fornendo in questo modo un grande assist all’industria alimentare, che fa dell’omologazione e della serialità il proprio motivo di esistenza – e di profitto. È la ricetta del cibo-farmaco, spacciato come "naturale", ma tutt’altro che in simbiosi con le differenze degli umori degli uomini, dei Paesi, delle stagioni. Esito di questa ideologia è l’obesità diffusa in quegli stessi popoli occidentali folgorati dal mito della perfezione e della loro superiorità sulla Natura (e quindi anche una forma di estraneità da essa), che quando mangiano si rivolgono ai prodotti dell’industria alimentare per la comodità di consumo e perché pienamente imbevuti della cultura consumistica. Da un punto di vista strettamente religioso intanto, se il piacere della gola resta un vizio capitale, la ragione della sua peccaminosa manifestazione non può risiedere nel palato, ma semmai – di nuovo – negli eccessi. Eccessi che però sono diventati la maggiore ambizione della società consumistica, promessi e mai soddisfatti, con l’effetto collaterale di generare un’incedibile quantità di spreco, che sta alla base di tante iniquità e atti insostenibili su questo pianeta. Basti pensare che nella sola Italia buttiamo via ogni giorno quattromila tonnellate di cibo edibile. Ecco dunque il secondo esito, a fianco dell’obesità: la fame e la malnutrizione, un’altra faccia della stessa medaglia [...].Sono ormai diversi anni che il sistema globale del cibo, per come si è strutturato, ha cominciato a palesare grandi limiti. Quello che in un primo momento sembrava contenuto soltanto nei moniti che lanciavano gli osservatori più attenti e critici oggi è sotto gli occhi di tutti: per esempio l’insostenibilità ecologica di produzione trasformazione, distribuzione e consumo, l’omologazione culturale e biologica, o un labile confine sulla sicurezza che può portare a pericoli per la salute pubblica come nel caso degli scandali che hanno fatto storia, vedi "mucca pazza" e i "polli alla diossina". Se c’è da temere per gli equilibri ambientali del Pianeta, per la nostra salute, per il nostro piacere e le nostre identità locali, nella società dei consumi sfrenati, dell’eccesso, in pochi però avrebbero scommesso su una crisi che si è manifestata per via di una scarsità. Il sistema ha fatto della quantità e della produttività crescente il suo punto di forza, il verbo sul quale modellarsi, per il quale inserire elementi tecnologici di stampo industriale-seriale poco compatibili con la Natura e con l’intimo rapporto che essa dovrebbe avere con l’agricoltura. Dalla "rivoluzione verde" in poi la produzione di cibo nel mondo è cresciuta a dismisura. In un primo momento, a partire dal secondo dopoguerra, ciò ha portato il vantaggio di risolvere carenze alimentari strutturali in molte regioni del mondo. Ma, va detto, il sistema agro-industriale globale non ha poi saputo risolvere il problema della malnutrizione e della fame. Tutto ciò nonostante gli ultimi dati messi a disposizione dalla Fao parlino di una produzione alimentare mondiale sufficiente per quasi dodici miliardi di persone, quando gli abitanti della terra sfiorano i sette miliardi. Come è possibile dunque che nel 2008 siano scoppiate rivolte in ben trentatré Paesi poveri a causa della carenza di cibo e della lievitazione eccessiva dei prezzi delle materie prime alimentari? Perché gli affamati nel mondo aumentano arrivando quasi a un miliardo di individui? Che cosa è successo per cui anche nei Paesi ricchi la nostra spesa quotidiana ha iniziato a subire consistenti aumenti di prezzo, iniziando a mettere in seria crisi le famiglie che non godono di un reddito elevato? Purtroppo la complessità – e fumosità – delle relazioni economiche che si intrecciano nel mondo del cibo "globale" è pari a quella dei mercati finanziari, cosicché questo nuovo scenario non è facile da analizzare. Tuttavia non è difficile individuare alcune cause che negli ultimi due anni sembrano aver accelerato esponenzialmente ciò che, con un po’ di lungimiranza, poteva essere previsto con larghissimo anticipo. Uno degli elementi nuovi, e quello forse dalla portata più prorompente, è l’emergere di nuovi modelli di consumo alimentare in ampie fasce delle popolazioni di alcuni Paesi ad alto tasso di sviluppo economico. Queste persone, che stanno iniziando ad accumulare una certa ricchezza e vivono il fascino dello stile di vita all’"occidentale", stanno abbandonando la loro dieta tradizionale per seguire il modello di consumi europeo e nordamericano. Per dirla in parole povere, milioni tra cinesi, indiani, mediorientali e sudamericani vogliono consumare quanta carne consumiamo noi, mentre la moda della "dieta mediterranea" come status symbol e non soltanto come elemento salutistico li porta a domandare sempre più pane, pasta e altri prodotti a base di cereali, soprattutto di grano. La filosofia dell’eccesso ha contagiato anche loro. Non ci vogliono una mente dalle capacità analitiche superiori o la disponibilità di dati molto approfonditi per capire al volo che un aumento di produzione di carne atta a sostenere un consumo quotidiano di milioni – se non miliardi – di persone in più nel mondo significa la necessità di estendere le terre coltivate a livelli impossibili [...]. Per potersi riappropriare però di un rapporto sano e costruttivo con il cibo è necessario fare un’operazione culturale che rivaluta il piacere, accoppiandolo all’idea di sobrietà. Un’honesta voluptate che rifiuta l’eccesso, ma che riconosce che il piacere è elemento fisiologico, un diritto di tutti. La gioia del cibo è ciò che ci può far comprendere di nuovo il suo vero valore. Ri-allenare i nostri sensi atrofizzati a riconoscere gusti e profumi, per capire le differenze, scegliere il più buono e il più piacevole, è anche un modo per ri-aprire gli occhi sul mondo. Si capisce così che il cibo è la chiave di equilibri che si sono rotti, che orientando la produzione in maniera sostenibile si può far tanto per l’ambiente e il clima, ma anche per far sì che spariscano molte iniquità [...]. Infine dunque torniamo al vizio capitale, o meglio, al vizio di fondo: la gola, il piacere alimentare. Se il fraintendimento del peccato, confuso con l’eccesso e praticato fino a livelli che hanno oltrepassato i limiti naturali, è il fondamento delle crisi, forse è proprio ripartendo dal peccato stesso, dal suo vero significato, che si possono aggiustare le cose. Il piacere alimentare infatti non va negato, al contrario va praticato costantemente e consapevolmente, e in maniera onesta, sobria. Anzi, va rivendicato: il peccato sta nel rifiutarlo completamente oppure farne unica ragione di vita, il peccato sta nell’eccesso e nella furia omogeneizzante della società dei consumi, nello spreco, nel non rendersi conto del valore di ciò che mettiamo nel nostro piatto. L’unico modo per riprendere in mano le nostre vite, senza colpe, è ripartire dal nostro cibo, quello dei nostri territori e dei nostri contadini, e dalla gioia di vivere che ci può trasmettere.
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