venerdì 4 dicembre 2015
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Tutta la storia, è stato detto, è storia contemporanea. In tal senso è davvero esemplare la vicenda del dramma lirico Giovanna d’Arco, libretto per opera scritto da Temistocle Solera, musicato da Giuseppe Verdi e andato in scena per la prima volta 170 anni fa, il 15 febbraio 1845, con discreto successo. La vicenda dell’opera verdiana offre un interessante parallelo con i giorni nostri. Oggi l’Europa risuona di più o meno appropriati appelli alla crociata, per quanto gli osservatori più seri li ritengano del tutto fuori luogo. Esattamente alla stessa maniera, nella Milano di 17 decenni or sono, una lontana vicenda della guerra dei Cent’Anni svoltasi nella Francia del primo Quattrocento poteva entusiasmare i milanesi per l’alquanto stiracchiata analogia tra la lotta dei francesi di allora per liberarsi dal giogo inglese e le prospettive dei lombardi del XIX secolo soggetti alla monarchia asburgica.Un paragone che regge poco, si dirà. Infatti. Tanto per cominciare, non è che nel Quattrocento i francesi fossero soggetti agli inglesi. Diciamo piuttosto che la lunga battaglia tra i due rami eredi dei capetingi, a uno dei quali era andato a metà Trecento il regno di Francia e all’altro il vassallo ma potentissimo ducato di Normandia con annessi Aquitania, Maine e Anjou nonché la corona regale d’Inghilterra, si era concluso dopo la battaglia di Azincourt del 1415 con il trattato di Troyes di 5 anni più tardo, mediato dal grande duca di Borgogna Filippo il Buono, che assegnava al duca di Normandia e re d’Inghilterra anche la corona francese.E ora facciamo un po’ di ucronia. La cosa aveva tutte le possibilità di funzionare. Avremmo avuto nel cuore dell’Europa due regni legati in «unione personale » sotto lo scettro di un unico sovrano e la saggia tutela del più lungimirante die principi del tempi, il «granduca d’Occidente» Filippo di Borgogna. Se più tardi le corone di Borgogna e d’Austria si fossero congiunte attraverso un’unione matrimoniale – come avvenne –, e quindi un altro matrimonio avesse unito gli austroborgognoni ai castigliano- aragonesi – e avvenne anche questo –, Sacro Romano Impero, Borgogna e Spagna unite e amiche della compagine franco-inglese si sarebbero trovate insieme, a un passo dall’unità politica del continente europeo: forse Costantinopoli non sarebbe caduta preda degli ottomani né ci sarebbe stata la Riforma protestante. Forse il nostro continente si sarebbe unito mezzo millennio fa.Ma tutto ciò non avvenne perché nel 1429 il delfino Carlo, pretendente sconfitto al trono di Francia che si era ritirato in un modesto possesso del centrosud del Paese, ricevette nel suo castello di Chinon sulla Loira la visita di una ragazzina lorenese di 17 anni, una pastorella, che dopo avergli annunziato di venire da parte di Dio e di essere stata scelta per buttar fuori gli inglesi dalla Francia, lo trascinò letteralmente di vittoria in vittoria fino a venir a sua volta incoronato re di Francia a Saint-Denis. Aveva del carisma, quella strana ragazza: si diceva addirittura facesse miracoli. Vestita come un guerriero, a cavallo e chiusa in una corazza d’acciaio, sgominava i nemici al suo solo apparire, levando alta una santa bandiera ricevuta dal cielo. Ma dopo tante vittorie era divenuta ingombrante: si mormorava anche fosse una maga, i suoi abiti maschili facevano scandalo e presto i consiglieri di corte di colui che grazie a lei era Carlo VII l’abbandonarono. Caduta in un agguato, tradita e forse venduta ai vassalli del duca di Borgogna, fino a Rouen ospite del reggente di Francia per conto di re Enrico VI – un bambino –, subì un compiacente processo inquisitoriale ma, poiché si era prima sottomessa e poi ribellata di nuovo alla sua sentenza che come eretica la condannava a una penitenza, fu bruciata come relapsa sul rogo nel maggio 1431. Non aveva ancora vent’anni. La sua figura è stata per secoli oggetto d’ogni tipo di contesa. Riabilitata una trentina d’anni dopo la morte da un altro processo inquisitoriale non meno compiacente (il re di Francia non poteva certo accettare l’idea di dover il trono a un’eretica), fu canonizzata, sì, ma soltanto all’indomani della prima guerra mondiale nell’intento di riavvicinare le due France – la cattolica monarchica e la laicista –: un’impresa impossibile, in quanto divenne insegna delle due parti avverse anche tra 1940 e 1945 e lo è ancora oggi. Ma tutto ciò non interessava affatto al Solera, il quale era attratto solo dall’idea che Giovanna volesse buttar fuori al tempo suo gli inglesi dalla Francia (un’idea in effetti poco comprensibile, nel panorama concettuale del Quattrocento), il che la rendeva un esempio proponibile ai lombardi del suo tempo dinanzi agli austriaci: era animato dalla medesima idea che il drammaturgo aveva già composto nel Nabucco e nei Lombardi alla prima crociata.Peraltro, il Solera si era ispirato al dramma La pulzella d’Orléans scritto nel 1800 da Frederick Schiller il quale, replicando a una composizione satirica voltairiana dal medesimo titolo, aveva inteso rivendicare Giovanna alla cultura romantica. Un’eroina, quindi, lacerata tra il suo eroico impegno d’onore sul campo di battaglia e un umanissimo amore: il tutto, ovviamente, senza cura alcuna per la verità storica. La sua Giovanna – continuamente affiancata da Giacomo, suo noiosissimo genitore che la sospetta di aver venduto l’anima al diavolo e di essere una strega – s’innamora del delfino Carlo e muore in battaglia. Insomma, con tutto il rispetto per l’arte di Schiller, un insulso e pesante polpettone che con la storia non ha nulla a che vedere. La composizione verdiana non è delle più felici: settima fra le sue opere, appartiene a un periodo nel quale la vena artistica del compositore era abbastanza fiacca (il grande successo sarebbe venuto più tardi, complice anche la politica del «Viva V.E.R.D.I.!»). Le pagine migliori, forse, stanno nei toni grotteschi dei cori demoniaci che tentano la Pulzella e che naturalmente riescono più 'spettacolari' di quelli angelici, edificanti ma tediosi. Con un tocco mafioso: Verdi impose come protagonisti due cantanti amici, la celebre Frezzolini e il suo meno valente marito, il tenore Poggi.È insomma un Verdi sbiadito, attratto dallo zumpapàbandistico, quello che il 7 dicembre prossimo sarà rievocato alla Scala: certo, senza il contorno patriottardo di 170 anni fa, eppure magari col rischio che qualche leghista in vena di exploits se ne esca col paragone tra l’inglese invasore del Quattrocento e il migrante islamico invasore di oggi. I migliori auguri al direttore Riccardo Chailly, che sembra incrollabilmente credere nell’impresa.
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