Un «gran corpo con piccolissima testa»: questa la metafora, incisiva ma alquanto impietosa, con cui padre Agostino Gemelli, qualche tempo dopo la creazione dell’Università Cattolica, definiva il cattolicesimo italiano. La notizia viene da una lettera di Arturo Carlo Jemolo, che riporta le parole pronunciate dal rettore forse in una conversazione privata. «Quanto alle masse cattoliche – scriveva Jemolo nel ’49 – ricordo che circa un quarto di secolo fa udii dalle Sue labbra un paragone molto sapido tra cattolicesimo francese ed italiano: il primo una gran testa senza corpo, il secondo un gran corpo con piccolissima testa». L’Università Cattolica era stata creata da qualche anno: perché, allora, chi più sentiva la responsabilità di guidarla esprimeva un giudizio che faceva trapelare dubbi e perplessità sul grado di maturazione culturale di quel mondo cattolico che l’aveva prodotta? Gemelli metteva a confronto la creatività del cattolicesimo francese e le caratteristiche del movimento generato dall’Opera dei congressi, un tronco solido da cui erano germinati molti polloni, ma anche un 'corpo' cui mancavano menti capaci di indirizzarlo nel difficile confronto tra prospettiva religiosa e modernità. Era questo il compito che si era addossato, non coincidente solo con una sfida privata tra la foggia francescana del saio che lo rivestiva e l’espulsione del cattolicesimo dai domini della ragione laica, comminata da alcuni cultori della modernità nel clima positivista di fine Ottocento, in cui lui stesso si era formato. I cattolici – sosteneva Gemelli – non devono confutare astrattamente i nemici della fede, bensì contribuire «con la pura indagine scientifica» a formulare nuove conclusioni, per far risaltare l’incompletezza e l’incoerenza del sistema di pensiero degli 'avversari'. Ecco perché il rettore, amante delle scienze sperimentali, psicologo, indagatore che si avvaleva di mezzi di osservazione all’avanguardia, persino pilota all’età di sessant’anni, non aveva nulla dell’uomo di altri tempi. Il medievalismo non gli impediva di dar vita a un’impresa culturale (l’Università) che non doveva aver nulla di arcaico. Al centro di tale disegno vi era l’auspicio di una metamorfosi politica, sociale e culturale, che l’ateneo avrebbe dovuto favorire formando quadri rinnovati. N on bastava creare un appartato giardino delle intelligenze cattoliche, per preservarle dai contagi della cultura laica; l’università 'libera' si candidava invece a fucina in cui sarebbe stata forgiata una classe dirigente integralmente cattolica e, allo stesso tempo, pienamente nazionale. E infatti l’ateneo era strutturato per fornire agli studenti i saperi necessari ai compiti civili cui erano destinati: le discipline sociali e le scienze economiche, sostenute da un lato dalle conoscenze psicologiche che il rettore aveva fatto fruttare sul terreno patriottico, e dall’altro dall’ausilio dei filosofi neoscolastici, intenti a definire i criteri edificatori del nuovo Stato, avrebbero dovuto collocare l’ateneo del Sacro Cuore al centro del processo di rifondazione nazionale. Università, dunque, cattolica ma anche italiana, perché alimentata da un disegno complessivo che mirava a rafforzare il senso di responsabilità civile della cattolicità italiana, per trasformarla, da luogo della contestazione degli assetti liberali, a sorgente di un modo diverso di essere cittadini. Il fascismo si inserì in questo progetto, alterandone parzialmente le caratteristiche. L’Università si trovò ben presto ad operare all’interno di un sistema a vocazione totalitaria, che complicava la strategia del rettore. Finiva allora per polemizzare, non solo con l’agnosticismo moderno, ma con la forzata attrazione dell’individuo nello Stato etico idealista, paventando un inasprimento della temperie autoritaria. E infatti le autorità fasciste valutavano con preoccupazione l’ancoraggio al modello di Stato cattolico, preteso da Gemelli, e lo stile educativo dell’ateneo, accusato di «non educare fascisticamente » e dunque al centro di lunghi contenziosi, momenti di rottura e faticose ricomposizioni. La rigidità dimostrata da Gemelli si spiega anche con la necessità di porre un argine nei confronti di aperture pericolose per la collocazione di una libera università in età dittatoriale. La scelta per la rigorosa ortodossia diveniva, non solo un limite alla ricerca individuale, ma una specie di difesa dal mondo che Gemelli si augurava funzionasse anche nei confronti della dittatura. L’inamovibilità dottrinale, peraltro, era il sostrato che apriva a una sorta di sperimentalismo in diversi settori. Quanto al fascismo, si può osservare che, pur fra cedimenti e alterazioni del progetto, Gemelli riuscì a difendere l’intuizione originaria, apprestando, in vista della successione, una porzio- ne notevole della classe dirigente che ha guidato il Paese dopo il ’45. L’Università Cattolica, che già forniva giovani all’insegnamento, alle carriere universitarie e alle libere professioni, vide molti docenti e laureati entrare nelle istituzioni nazionali, nella pubblica amministrazione, negli enti locali e nei punti nevralgici per la ricostruzione del Paese, contribuendo alla rinascita democratica, alla fondazione della Dc ( i documenti ci dicono che padre Gemelli, d’accordo con Montini e con De Gasperi, ha convinto Pio XII dell’opportunità di sostenere il nascente partito cattolico), all’Assemblea costituente, alla ripresa economica e al ripristino di libere attività sindacali. Parlare del suo rettore significa insomma riflettere su un intellettuale e su un organizzatore di cultura che non ha esitato a fare i conti con la propria epoca. Si devono discutere i risultati ottenuti, le luci e le ombre di quella attitudine progettuale, gli esiti teorici e pratici, non ultimo, probabilmente, il fardello ideologico trasmesso ai suoi eredi. Tali valutazioni, tuttavia, devono riconoscere a padre Gemelli almeno una capacità: quella di incidere sul proprio tempo, una capacità che forse altre volte, in campo cattolico, ha faticato a mostrarsi. A sinistra, Gemelli sessantenne ai comandi di un aereo.