Non saprei dire perché, ma quando sfoglio un libro di Alfonso Gatto, il primo pensiero che mi viene in mente ha a che fare con la sua morte, avvenuta improvvisamente all’ospedale di Orbetello l’8 marzo 1976 a causa d’un incidente stradale consumatosi nei pressi di Capalbio. Subito seguìto, questo pensiero, da quello del suicidio del figlio Leone, avvenuto il 6 giugno dello stesso anno. Pensieri luttuosi: che non s’addicono, sulle prime, a un poeta d’insistito e prolungato colorismo che, per altro, ha vissuto soprattutto per amore, per l’amore. Provo, allora, a darmi una risposta e la trovo nel fatto che Orbetello è una delle più dolci porte che ci introducono al Mediterraneo, col suo modesto porto quieto e quel sospetto di isole – il Giglio, Giannutri – quasi a portata di onda. Ve lo chiedo: c’è un poeta che, più di Gatto, possa definirsi mediterraneo? Ma non è finita qui, perché Orbetello è anche una città lagunare, d’acqua pure morta, d’alghe macerate: proprio come l’amata Venezia, che non piccola parte ha avuto nella vita e nelle liriche del nostro poeta. Prendete questi versi di Settembre a Venezia che ricavo da Poesie d’amore 1941-1949, pubblicate in volume nel 1950: «Hanno il colore delle navi morte / in un’alba lontana quei colombi / rimasti soli sulla grande piazza. / E l’agro odore della mareggiata, / di là dove verdeggia al cielo e ai vetri / del temporale un’isola di luce, / qui resta come un barbaglìo di tende / e di chiese che incrostano sui marmi / le fredde acquate dell’autunno». Ho parlato di colorismo, riproponendo una verità tempestivamente formulata dalla critica migliore: quando è poi vero che Gatto è stato anche pittore in proprio, con più impegno negli ultimi anni, e critico d’arte, nonché, in quanto poeta, sempre disposto a lavorare con le parole come su una tavolozza. Basterebbe pensare a una raccolta del 1969, d’esplicita vocazione sin dal titolo: Rime di viaggio per la terra dipinta. E che ci dice che Gatto è stato pure uomo irrequieto, non solo sentimentalmente, ma anche di movimento, sempre sul punto di partire per un viaggio (o per una nuova vita), insegnandoci a capire quanto sia bella e plurale l’Italia, restituita dentro il caleidoscopio di quelle immagini che Gianfranco Contini definì «vertiginosamente analogiche». Da qui ricavo questi altri versi intitolati Eden meridionale: «Vecchie regge borghesi di croccante / eternità marina dov’è netto / lo squillo delle tegole, le piante / s’affacciano ai dirupi dallo stretto // degli scassi insabbiati, vive il caldo / tripudio del barocco rusticano, / le cantilene delle bàlie, il saldo / rosso dei muri al sesto della mano».Poeta mediterraneo, dunque, e anche edenico, seppure questo suo Meridione sembra ricordare, come riassumendolo, il Sud fantasmatico, di irrealistica realtà, popolato da morti che non sanno di esserlo, della Morante di Menzogna e sortilegio (1948): vecchie regge borghesi, barocco rusticano, balie cantilenanti.Poeta mediterraneo e edenico, dicevo: nato a Salerno il 17 luglio 1909 da madre di nobili natali borbonici e da padre discendente – come lui stesso scrisse – «da un’antica famiglia di armatori e marinai tra Reggio e Messina». Epperò trasferitosi nel 1926 a Napoli per studiare Lettere: verranno poi la Milano e la Firenze delle grandi amicizie letterarie, del lavoro fervido. Così nella prosa lirica intitolata Amici inclusa nel suo libro di esordio, Isola (1932): «Abitiamo in una sola piazza, tutti: la notte si parla a stanza aperta dai letti». E più avanti: «Napoli ci bacia: fragorosi cuscini passano alla testa ubriaca ». Questo che beatamente vive a Napoli è un Gatto il quale, in una piazza che «arde di vento nella folla gaia», si sente «ilare e colorato», di vita euforico. Assai diverso, invece, è il sentimento di Salerno, col suo malinconico golfo («Scirocco d’albatri svogliati»), legato com’è al ricordo di Gerardo, il fratello morto nel 1925, il «piccolo morto», come già si legge, ancora in Isola, nell’Idillio del piccolo morto: «In dolorosa esilità mi chiami, / piccolo morto intirizzito d’aria: / la notte calma con pazienti rami / il sonno bianco della Solitaria». E più avanti: «Piccolo morto svincoli le forme / ora che s’è rinchiuso nel tuo strazio / in un silenzio intenso il mondo e dorme. // Esorbiti: cautela del tuo volto / l’aria trasale, illimpidita. Lento, / ripiegato su te, quasi in ascolto / del tuo silenzio, ti rassegni al vento». Esorbita, il piccolo morto, sino al punto di ritrovarlo, Gerardo, nella raccolta che consacra Gatto definitivamente, Morto ai paesi (1937), proprio nella poesia che emblematicamente la apre, Morto di primavera. Si tratta d’un libro profondamente segnato dal sentimento della morte, che, per altro, torna a innervare i versi di Padre morto, per il genitore venuto a mancare nel 1936. Un sentimento che, nella lirica posta a suggello, la notevolissima Morto ai paesi, induce Gatto a rappresentare se stesso come morto alla vita della terra che gli ha dato i natali: «Bambino festoso incontro alla strada / del giorno chiamato lungamente / sarò morto nel gioco dei paesi».
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