Siete andati in Gallura? Evitate, al ritorno, di raccontare che avete visitato la Sardegna. La Gallura - il nord dell’isola proteso verso l’arcipelago della Maddalena, le Bocche di Bonifacio e il golfo dell’Asinara - è cosa diversa, altra, aristocratica, e lo rimarca ad ogni occasione. "I sardi", dicono con sufficienza a Santa Teresa e dintorni quando parlano di quelli dell’interno, e perfino le sfumature lessicali giocano un ruolo distintivo. Gli articoli "su" e "sa" cedono volentieri spazio a "lu" e "la", e del resto l’antica frequentazione di queste coste da parte di pisani, genovesi, còrsi, catalani non poteva non lasciare tracce. Poi arrivarono i piemontesi, che proprio di un posto chiamato Lungoni fecero Santa Teresa, strade a reticolo come a Torino. Un’isola dentro l’isola, tale è la Gallura aspra, selvaggia, schiaffeggiata dal maestrale e dalle onde, abitata da uomini e donne dal carattere forte, temprati a contare sulle proprie forze e alla vita solitaria. Questa è la terra degli stazzi, creazione originale del popolo gallurese. Lo stazzo (da statio, stazione) si trova solo qui, spiega lo studioso di tradizioni locali Salvatore Brandanu. Unità d’abitazione e unità produttiva allo stesso tempo, è l’equivalente della cascina della pianura lombarda. Poi è arrivato il turismo di massa, con il suo bene e il suo male, e qualche anno fa nella campagna di Buoncammino hanno preso due stazzi attigui, emblema di una radicata cultura rurale, profanandoli con la trasformazione in discoteca, gli "Stazzi uniti". Eppure, al di là di ferite appariscenti la cui responsabilità ricade su chi ha cementificato e su chi non ha impedito iniziative edificatorie demenziali, la Gallura ha difeso il proprio paesaggio e con esso una identità precisa fatta di fierezza. Mare, campagna, collina e montagna vi trovano pacifica convivenza, e basta salire dalla costa fino ai 1300 metri del Limbara, a ridosso di Tempio Pausania, per trovarsi a sorpresa in un ambiente alpino di rara suggestione. Intanto avrete attraversato forre selvagge, vallate fuori mano, dorsali coperte da vegetazione appiattita al suolo dalla violenza del vento, foreste di querce da sughero e di olivi secolari. Avrete visto ovini al pascolo, cave di granito, nuraghi, bianche chiesette isolate. E qualche stazzo, appunto, là dove la civiltà contadina sopravvive. La costa è altra cosa. Frastagliata, sfrangiata in mille insenature, è dominata da rocce di granito rosso o grigio che incombono su modesti arenili. Ma solo in certe zone però, perché tra Santa Teresa e Vignola si apre lo spiaggione forse più grande e profondo d’Italia, chilometri di sabbia finissima interrotti dal promotorio granitico di Monti Russu. Spiagge libere a perdita d’occhio, sulle quali la ressa della Liguria è sconosciuta e il pigia-pigia di Rimini sembra appartenere alla dimensione dell’impossibile. Se ti prende la vertigine dello spazio aperto e infinito, ci sono angolini raccolti dove in pochi si condivide la bellezza dell’ambiente e il valore del silenzio: Cala Serraina, ad esempio, oppure la spiaggia delle colonne a Capo Testa, sulle Bocche di Bonifacio, dove ancora sono visibili i segni dell’attività estrattiva iniziata in epoca romana e continuata per secoli. Se è vero - come qualcuno afferma - che per i lavori del G8 alla Maddalena hanno importato granito dalla Cina, non può esistere sanzione adeguata ad un misfatto del genere. Il mare, poi. Unico. Bisogna vederlo, toccarlo e tuffarsi per comprenderne la sostanza e la ricchezza. Nuoto, diving, surf, vela, e tutto quello che uno può desiderare. E si capisce come un gran viaggiatore teresino come Giammario Occhioni, reduce con Natàlia da una puntata alle Andamane, ripeta agli amici: «C’era un mare... C’era un mare... Come il nostro!». Per chi adora ubriacarsi della bellezza dei paesaggi è consigliabile salire sull’altura alle spalle di Palau. Avrà di fronte il mare, l’isola di Santo Stefano, la Maddalena, Caprera, Spargi, le alte isole dell’arcipelago e laggiù la Corsica. Scoprirà l’emozione di trovarsi nel posto più bello del mondo, ma potrà gustare un inebriante bis di stupefazioni a Capo Testa, affacciandosi sulle acque verdi di Cala Spinosa, aggirandosi tra le rocce scolpite dall’artista Maestrale. Scarpinando un poco, arriverà ad un angolino delizioso chiamato Valle della Luna, già paradiso di alcune comunità di hippy, ragazzi un po’ bizzarri che non hanno mai infastidito. Ora la stagione degli hippies è terminata, lo spazio è tutto per i vacanzieri classici, che una volta scoperta la Sardegna non la tradiranno, a dispetto del caro traghetti. Turisti di tutta Europa che si aspettano che sia la Gallura a non tradire l’ospite presentando l’anno dopo un voto alterato, una nuova lottizzazione, un altro villaggio di casette dozzinali dietro una curva dalla quale si vedeva il mare. I frequentatori affezionati che hanno ormai i capelli bianchi rimpiangono il fascino mozzafiato delle ciclopiche quinte di granito rosso di Costa Paradiso quando c’era solo la villa di Michelangelo Antonioni. Poi su quei roccioni è spuntata una città. E allora, mentre monta la marea dei ricordi, l’attempato turista torna dopo il tramonto a Capo Testa, incontaminato paradiso in terra. Sfidando le raffiche di maestrale - che imperversa per tre, sei o nove giorni - trae gratificazioni indicibili da una bellezza senza uguali. Nel silenzio rotto solo dal sibilo delle folate, il faro indirizza tre lampi verso le Bocche, luce amica per chi naviga su acque infide da affrontare con prudenza e perizia. Dalla riva opposta il faro di Capo Pertusato risponde con due, così la Gallura vince sempre.