Arriva oggi in libreria «Francesco: il cristianesimo semplice di papa Bergoglio»(il melangolo, pagine 56, euro 6), un breve saggio in cui il giornalista di «Avvenire»
Alessandro Zaccuri propone una lettura dell’attuale pontificato attraverso la tradizione ignaziana degli «Esercizi spirituali» così come è mediata da alcuni capolavori pittorici. Anticipiamo qui un brano del libro.----------------------------------------------------------------
Gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola sono il racconto di una semplicità conquistata. Il termine non è scelto a caso. Sia Francesco sia Ignazio sono stati soldati, hanno combattuto, hanno conosciuto il primo la prigionia e il secondo la sofferenza delle ferite. Dopo di che, hanno abbandonato le armi. «Tutti e’ profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono», si compiace di annotare Machiavelli nel Principe, istituendo una regola generale che però non tiene conto dell’eccezione francescana e ancora non può, per meri motivi di cronologia, apprezzare quella ignaziana. Francesco e Ignazio sono e vogliono essere «profeti disarmati», non per disprezzo della disciplina militare (che anzi riveste un ruolo tanto importante nell’organizzazione interna della Compagnia di Gesù e, in modo più sotterraneo ma non meno rilevante, nella stessa famiglia francescana), ma perché in questa rinuncia all’armatura si consuma il primo stadio della spogliazione, che costituisce il fondamento e l’apice della vita cristiana. Nel momento in cui si spoglia di sé, il credente condivide qualcosa del mistero dell’incarnazione perché, come scrive papa Francesco nel messaggio per la Quaresima del 2014, «la povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio». Prima ancora di denudarsi davanti al vescovo di Assisi, Francesco decide di non indossare più la corazza del cavaliere. A quel punto è già al cospetto di se stesso, è già nudo, già totalmente identificato con la sua sola umanità. Si pensi a un quadro celeberrimo: la Pala Montefeltro di Piero della Francesca (1472). Tra i numerosi santi che compaiono del dipinto c’è anche Francesco, che nella mano destra tiene la croce, mentre con la sinistra scosta leggermente i lembi di un taglio nel saio, sotto al quale sta un altro taglio, più doloroso: la ferita che il serafino gli ha impresso sul petto. È la ferita in cui sono compendiate tutte le altre, la stessa piaga riprodotta con estremo realismo da Caravaggio nella magnifica Incredulità di Tommaso (1600-1601). Anche il Cristo di Caravaggio e il Francesco di Piero, come più tardi il San Francesco di Francisco de Zurbarán, non portano segni sulle mani. A essere sottolineato è il punto del costato da cui, secondo Giovanni 19, 34, sgorgano «sangue e acqua», lo stesso binomio che ritroveremo in Anima Christi, la preghiera semplicissima che Ignazio pone in epigrafe agli Esercizi:
Sanguis Christi, inebria me. / Aqua lateris Christi, lava me. Il Francesco che nella Pala Montefeltro mostra insieme la croce e la ferita ribadisce, con questo duplice gesto, il legame specialissimo che fa di lui un alter Christus . Il suo è anche un atto di denudamento. Francesco lascia intravedere la propria nudità, sia pure parziale, perché in quella nudità – in quella carne altrimenti condannata al peccato – si è manifestata la salvezza. La mobilità del santo è in singolare contrasto con la fissità nella quale appare relegato il committente, Federico da Montefeltro, l’unico tra i molti personaggi del dipinto che Piero ritrae di profilo. Federico è anche il solo ad apparire in ginocchio, ancora rivestito della sua armatura. Restano scoperti il volto, tratteggiato in una rigidità da cammeo, e le mani, riprodotte dal pittore con meticoloso realismo. Nonostante la plasticità dei dettagli (il colore dell’incarnato, le venature che lo attraversano, gli anelli), le mani di Federico restano inerti, non operano alcuna rivelazione, al contrario di quelle di Francesco. Le mani del condottiero sono terribilmente simili ai guanti dell’armatura appoggiati davanti a lui, per terra, pronti a essere indossati una volta terminata l’orazione. Vicino a loro c’è l’elmo, collocato di tre quarti, in modo da accentuare ulteriormente la linea innaturale del profilo: è come se la sommità dell’armatura, ancora con la celata abbassata, fosse diventata il vero volto di Federico. Il guerriero non si è disarmato, la nudità delle sue mani è accidentale, momentaneo il suo presentarsi a capo scoperto. Il suo corpo non può ricevere alcuna ferita, neppure per via mistica, come nel caso di Francesco. Ma lo spettatore intuisce che in questa incolumità si annida un pericolo: chi non viene ferito, non può essere salvato. Per questo non si dà, nel tempo presente come in ogni tempo, cristianesimo che non sia disarmato.
Intra tua vulnera absconde me, «nascondimi nelle tue ferite», si implora in Anima Christi. La preghiera conta tredici versi e questo delle ferite è il settimo: sta a metà, fa da perno, da chiave di volta. La predilezione che papa Francesco non si stanca di manifestare per «i poveri e gli infermi, coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati» ( Evangelii Gaudium, 48) è radicata in questa consapevolezza, che è ricerca del centro e, quindi, riscoperta incessante di Cristo. Ne permittas me separari a te , «non lasciare che sia mai separato da te», è l’invocazione subito successiva: nascondersi nelle ferite di Cristo dà la certezza di essere uniti a lui.