Nanni Moretti ne "Il sol dell'avvenire" - Archivio
Nanni Moretti debutta alla regia teatrale. La notizia personalmente non mi turba. Per un motivo molto semplice: è da quarant’anni che assisto divertito e rimborsato mentalmente al monologo teatrale di questo splendido settantenne. Confesso, se ho scelto di fare il mestiere del giornalista è per poter raccontare le emozioni che mi hanno regalato le prime partite di calcio sui campetti spelacchiati di una periferia di provincia. Poi le canzoni alla radio, ascoltate in macchina nei viaggi d’estate per arrivare alla Pensione Edera di Rimini. E infine la passione per il cinema, con i pomeriggi d’inverno della mia infanzia passati dentro a un magico e fumoso Metastasio, ad Assisi, a vedere qualsiasi cosa riempisse quel grande schermo, che per me era e rimane gigante. E in una serata della fine degli anni ’70, per la prima volta sentii parlare di «cineforum», con «segue dibattito», e da quello schermo apparve un titolo inquietante - «perché le parole sono importanti», ma all’epoca il mio vocabolario era fisiologicamente elementare (si era alla scuola primaria) - Io sono un autarchico. Protagonista: un ragazzone allampanato, romano, con la voce cantilenante da calabrone imprigionato dentro a un bicchiere. I capelli lunghi da contestatore post-sessantottino e quell’aria trasognata di uno che poi nel tempo avrei anche potuto definire “felliniano”, ma quello no, era l’inizio del monologo teatrale di uno stile unico e inconfondibile, “Morettiano”. “Aspettando Nanni”, poteva essere anche il titolo della pièce della mia generazione cresciuta nei semivuoti anni ’80 (a ben vedere molto più pieni di questo spreco di terzo millennio) in cui negli anni del liceo quel lampo di una notte si ripresentò con un altro cineforum da strapaese in cui venivamo aggiornati dell’evoluzione del suo alter ego Michele Apicella che intanto nel ’77 si era fatto conoscere a Cannes (1978) con Ecce bombo. Un film che, come Io sono un autarchico, ho capito appieno, tempo dopo, quando a un Festival di Spoleto incontrai il più surreale dei colleghi del Messaggero, Paolo Zaccagnini. Col suo barbone da anacoreta metropolitano aveva preso parte a tutte e due le pellicole del suo fraterno amico Nanni. «Mortacci sua, non ho preso una lira e a Cannes e alla proiezione stavo seduto a fianco a Scorsese e Liv Ullmann che m’ha pure baciato e m’ha fatto i complimenti», raccontava ancora eccitato Zaccagnini a una ciurma di scalcagnati giovani aspiranti sognatori da Sogni d’oro (perla morettiana del 1981) che ridevano alle bombe fantasiose del Bombo Paolo. Perdonaci Zac, era tutto vero, anche quel racconto della seconda prova da attore per Moretti, con tanto di viaggio spaccaossa, a bordo di una Simca, per raggiungere il già divo Nanni sulla Croisette. Un resoconto esilarante quello di Zaccagnini che è finito nero su bianco sull’ultimo numero della rivista del Centro sperimentale di cinematografia Bianco e nero, “Noi, figli di Bombo” (estratto dell’Unità di 2 giugno 1995). Dei compensi non percepiti per il suo bis morettiano lì Zaccagnini non fa menzione. Ma che importa, con quelle poche scene, lui e tutto quel «mucchio selvaggio di amici incompetenti» (solo Fabrizio Traversa, il futuro Fabris di Compagni di scuola di Carlo Verdone, ha fatto l’attore) è entrato nella storia del cinema. Perché Nanni Moretti in 47 anni di onorata carriera e 14 film girati, con lo spirito da eterno “osservatore romano” in Super8, ha letteralmente riscritto la storia del nostro cinema. E lo ha fatto mettendosi sempre in primo piano, narcisisticamente. Unico e inarrivabile, ha piazzato la sua sedia da attore protagonista-regista sotto il riflettore di un palcoscenico che ha assunto via via la geografia sentimentale di un quartiere romano, poi di una città eternamente irrisolta e infine di un Paese. «I miei film partono sempre da me, dai miei tic, dalle mie ossessioni, da quello che mi irrita. Il fatto che io sia il protagonista non significa necessariamente che io sia il migliore, ma solamente colui che è più capace a offrire la giusta interpretazione di ciò che ho scritto», spiegava Moretti in un’intervista del 1993. Intanto noi che lo seguivamo frame dopo frame, ritagliando foto e articoli di giornale incollati nel diario di scuola e annotando battute da rivendere al volgo ignaro del logos morettiano («Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce...») c’eravamo nutriti di barattoli giganti di Nutella dopo Bianca, di nostalgie d’oratorio con La Messa è finita e dell’ultimo brandello di appartenenza politica con Palombella rossa. Con Massimo Troisi sognavamo, con Verdone ridevamo e con Nanni Moretti facevamo l’uno e l’altro, con in aggiunta la percezione che ci fosse ancora un pensiero.
A ogni uscita dal cinema, specie dopo il preveggente Palombella rossa che viene presentato al Festival di Venezia a settembre 1989, due mesi prima della caduta del Muro di Berlino, il piccolo gruppo di aspiranti sognatori si interrogava sulla portata politica del messaggio, sulla metafora di un metacinema che raggiunse il massimo del monologo teatrante in un quel film di fughe da fermo immagine che è Caro diario. La prevalenza di un destino che cerca la speranza anche nella sconfitta inevitabile, è il segno che ha lasciato impresso in noi ogni suo film. Una patina mai superficiale di introspezione, come se ad ogni storia ci dovessimo stendere sul lettino dell’analista e fare i conti con i nostri traumi infantili (con l’eterno ragazzo Nanni), i tabù e i sensi di colpa collettivi di chi, volente o nolente ha consegnato questo Paese nelle mani sporche dei Caimani. «Ve lo meritate Alberto Sordi!», urlato in Io sono un autarchico, a un ragazzino che era cresciuto con il mito dell’Albertone nazionale sembrò la più crudele delle invettive pronunciate da quel giovane barricadero frutto della borghesia romana. Oggi però so che è stato proprio quel borghese piccolo piccolo, anzi microscopico, cinico, egoista, cialtronesco, corrotto e corruttibile (vittima deputata del fango in cui affonda da sempre lo Stivale) incarnato dalla “maschera Sordi”, ad aver infranto il sogno ne Il sol dell’avvenire. Illusi, delusi e a volte disuniti, Nanni Moretti da mezzo secolo a questa parte ha avuto il grande merito di ricompattarci ciclicamente e di farci andare a petto in fuori e con «lo sterno carenato» ad affrontare il futuro. La religione del suo tempo è quella libertaria, in cui la vera rivoluzione la compie l’uomo che continua a informarsi sul mondo in cui vive, a ragionare sul senso dell’esistenza, a leggere libri e giornali, a guardare film, ad ascoltare musica e andare a teatro (magari a vedere quel piccolo genio attoriale del suo Silvio Orlando). Come scrive Marco Lodoli nel suo contributo morettiano in bianco e nero, “Un cinema da un altro mondo”: «I suoi film avanzano su quel filo sospeso sul baratro, ogni passo deve essere semplice e perfetto, è l’abisso che lo pretende. Un uomo solo su quel filo teso lassù, che ci fa sentire ancora più chiaramente il desiderio di armonia e la disarmonia della vita». Per questo, che piaccia o meno, il cinema di Nanni Moretti resterà come patrimonio di una cultura pasoliniana, basata sulla lettura e sulla conoscenza da ridistribuire a tutti, specie a coloro che sono più svantaggiati. Sferzante contro la classe politica e contro i suoi stessi ex compagni di avventura, irriverente fino alla profezia di un “papa irregolare” (il cardinal Melville di Habemus Papam), talmente autentico al limite dell’antipatia, i tanti formidabili Nanni che si sono succeduti sulla scena ci rimandano alla direzione ostinata e contraria della ricerca speranzosa di un centro di gravità permanente. «E ti vengo a cercare…», di Franco Battiato (inserita nella colonna sonora di Palombella rossa) è il vero inno di battaglia che Moretti non ha mai smesso di intonare, è il monito alle coscienze di tutti quelli che hanno capito che la vita non sarà un film, ma è anche vero che a volte un pezzo importante delle nostre esistenze passa anche da lì.