Pepe Mujica a Venezia (Ansa)
Da guerrigliero tupamaro a presidente della Repubblica uruguayana, la parabola di José Mujica, meglio noto come “El Pepe”, torna sotto le luci dei riflettori proprio alla Mostra del Cinema di Venezia con ben due lavori.
Oggi lo stesso Mujica è stato superstar, suo malgrado, sul tappeto rosso accanto al regista Emir Kusturica che ha presentato al Lido il suo bel documentario sulla figura di Pepe Mujica, oggi 85enne, “El Pepe. Una vida suprema” dove ripercorre la storia di uno degli storici leader del movimento marxista-leninista dei Tupamaros che venne brutalmente represso dalla dittatura militare nell’Uruguay nei primi anni ’70. Dopo anni di prigionia e torture, col ritorno della democrazia nel 1985, Mujica venne scarcerato con altri “companeros”, entrò in politica sino a venire eletto presidente della Repubblica dal 2010 al 2015. Il presidente più povero del mondo, venne definito, dato che tratteneva per sé solo una piccola quota dello stipendio per darlo ai bisognosi.
E Mujica, oggi, proprio per modestia non ha voluto farsi fotografare durante il photocall della mattina, anche se è stato poi costretto a sfilare sul tappeto rosso (firmando autografi) nella proiezione pomeridiana, acclamato da tutti. “Non sono una star” ha detto l’ex presidente aggiungendo un pensiero ai migranti: "L’Europa ha delle colpe da riparare in Africa, una lunga storia di errori che parte dal colonialismo, per questo l’emergenza dei rifugiati può risolversi solo in un modo: con un piano Marshall che faccia vivere il continente, altrimenti il mar Mediterraneo non sarà abbastanza grande per diventare un cimitero e le donne africane saranno più forti comunque".
Si focalizza proprio sul periodo della prigionia di Mujica e dei suoi compagni, invece, il bellissimo film "La Noche De Los 12 Años" (12 Anni) del regista ispanico-uruguayano Álvaro Brechner, in concorso nella sezione Orizzonti, capace di farci vivere dal di dentro l’oscuro mondo della tortura.
Il film è basato sulle testimonianze delle esperienze vissute da tre delle figure più note dell’Uruguay contemporaneo: José “Pepe” Mujica, appunto, Mauricio Rosencof, scrittore e poeta di fama, ed Eleuterio Fernández Huidobro, ex Ministro della difesa. “Il mio non è un film sulla dittatura, ma un viaggio esistenziale nella lotta di alcuni uomini per conservare il proprio spirito durante la discesa agli inferi della peggiore delle prigionie”, spiega ad Avvenire il regista Brechner.
Il film inizia nel settembre 1973. L’Uruguay è sotto il controllo della dittatura militare, che ha smantellato il movimento di guerriglia dei Tupamaros da un anno, imprigionandone e torturandone i membri. Una notte, nove prigionieri Tupamaro vengono portati via dalle loro celle nell’ambito di un’operazione militare segreta che durerà dodici anni. Da quel momento in poi, verranno spostati in continuazione in diverse caserme sparse nel Paese e assoggettati a una nuova forma di tortura psicologica estrema. L’ordine dell’esercito è: “Visto che non possiamo ammazzarli, li condurremo alla pazzia”.
Per dodici anni quindi, i prigionieri resteranno in isolamento, in minuscole celle dove trascorreranno la maggior parte del tempo incappucciati, legati, in silenzio, privati di necessità fondamentali, denutriti, senza diritti. Una prova estrema anche per i tre bravissimi attori protagonisti (Antonio De La Torre, Alfonso Tort e Chìno Darin), capaci di rendere con forza espressiva l’incredibile lotta giornaliera per la vita in uno stillicidio di giorni, anno dopo anno.
E mentre i corpi si consumano nel gelo delle orride stanze e della crudeltà dei carcerieri fotografati con ironia nella loro stupidità, il regista mostra con tocco onirico e poetico i pensieri cui i prigionieri si aggrappano per vincere le allucinazioni, il ricordo della propria famiglia, il sogno di riabbracciare una madre. Usciranno trionfanti quando il popolo uruguaiano decreterà la fine della dittatura.
“Ho incontrato due volte Mujica, un uomo in cui è assente la vanità – spiega Antonio De La Torre, che lo interpreta -. Mi hanno colpito la sua stoica resistenza al dolore e la statura morale. Ha visto il film e ha pianto, era preoccupato soprattutto che non venissero dimenticati i compagni uccisi”.
“Io sono nato nel ’78 in piena dittatura – aggiunge l’attore uruguayano Alfonso Tort –. È un tema molto delicato al centro del dibattito, specie in vista delle elezioni del prossimo anno. Anche la figura di Mujica è amata da una parte, e non dall’altra. Le ferite della dittatura sono ancora aperte, c’è ancora molta ideologia e il dialogo è difficile. Non si sa ancora tutta la verità, occorrerebbe una riflessione profonda”.