«La storia di una Chiesa senza la parola, la responsabilità, l’autorità delle donne è semplicemente una storia di infedeltà al Vangelo. Quando preghiamo con il Magnificat accogliamo come dono e insieme come compito quel "rovesciare i potenti dai troni" che ci porta fuori dal mondo del dominio e dentro quello della reciprocità. Conosciamo bene dagli studi storici la condizione di marginalità politica e sociale della donna contemporanea a Gesù. Nel Vangelo non c’è niente che dica anche solo contiguità con questa geometria delle posizioni di genere. C’è un mondo "di fatto" rovesciato, di donne e uomini che si alzano e camminano, parlano, toccano Gesù, mostrano un altro mondo possibile, fatto nuovo». Giornalista e scrittrice, docente di Lettere e da poco preside, Mariapia Veladiano riprende il cantico mariano per eccellenza come chiave di lettura. «Papa Francesco sembra avere una specie di imprinting sul tema del potere, dello scandalo del potere che inchioda tre quarti del mondo all’ingiustizia e attraversa la Chiesa e la marginalità della donna nella Chiesa sta dentro questo scandalo. Che è peccato, per chi crede», osserva. E torna di nuovo al testo evangelico dopo aver enunciato i suoi riferimenti spirituali: «Ho incontrato Bonhoeffer e sant’Ignazio al momento giusto e non li ho mai più lasciati. Il momento giusto è stato per me intorno ai vent’anni, quando quel che si è ricevuto come ovvio diventa nostro per scelta oppure viene lasciato cadere, magari a poco a poco, senza che ci sia una decisione. Bonhoeffer mi ha portato la fede come libertà e rigore. Ignazio ha aggiunto quel tanto di follia che arriva alla fede quando la vita ci viene restituita come nemmeno potevamo prima immaginare o sperare. Se da una vita così sopra le righe può arrivare quel miracolo di sapienza e misura che sono gli Esercizi spirituali, allora c’è speranza per tutti! E poi entrambi mi hanno rinviata al Vangelo e basta».
Figure bibliche femminili, sante, mistiche a cui è particolarmente legata?«Giuditta. Si resta senza fiato a leggere il suo affrontare solitario una situazione che sembra mettere all’angolo perfino la fede. E ci si chiede da dove arrivi la sua forza. Prima va dai i capi di Betulia, intortolati in una fede impaurita e ricattatoria. Poi prega con una preghiera straordinaria: "Infondi a questa vedova la forza di fare quello che ho deciso". E qui si capisce che la sua forza arriva da Dio. Giuditta non si sottrae a quel che capita. Non ha scrupoli. Lo scrupolo è spesso mancanza di fede. Non credere che Dio può dove noi non arriviamo. Lei può parlare così perché non è sola. Non siamo soli, mai. E poi c’è il corpo. Nella storia di Giuditta la salvezza del popolo passa attraverso la sua fede e il suo corpo di donna dalla bellezza che seduce. La salvezza di tutti noi passa attraverso l’incarnazione. Eppure di Giuditta si è impadronito un immaginario maschile che l’ha fissata nello stereotipo della bellezza o della violenza».
Ritiene che i media abbiano una visione stereotipata della donna credente?«In generale credo che oggi prevalga una visione semplificata di tutto. E quindi anche della donna e della donna credente. C’è un difetto di pensiero che vive di velocità, di povertà di linguaggio, di chiamiamoli dibattiti che dal parlamento, ai consigli comunali, alla televisione, esibiscono prevaricazione e maleducazione. È stato uno scivolamento progressivo del nostro vivere incivile e credo che solo la scuola, e in parte la Chiesa, soprattutto la Chiesa a servizio dei poveri, abbiano fatto argine al processo in questi anni. Penso alla Caritas, un vero luogo di pensiero: i suoi rapporti annuali, a rileggerli nel tempo, mostrano di aver saputo comprendere con bell’anticipo quel che sarebbe capitato. Quanto agli stereotipi, mi preoccupano di più quelli che abitano dentro la Chiesa. Per restare alle donne. Quanta parte dei padri riuniti in sinodo in questi giorni sarebbero davvero felici di vedere donne teologhe a dirigere una università teologica? Bene, capiterà. Magari presto. In fondo pochi si aspettavano quel che il Concilio Vaticano II è stato per la Chiesa».
Nei suoi romanzi le figure femminili sono portatrici di un messaggio profondo: quale?«Che la vita può essere riparata. E non con un atto di sovrumano individuale eroismo, non perché uno su mille ce la fa, santo o superman, ma perché possiamo trovare compagnia e in compagnia la fatica è più leggera e la paura fa meno paura. Le solitudini del nostro tempo sono spesso delle condanne crudeli. Un genitore anziano, un figlio con disabilità, il lavoro perso e si affonda. Ma c’è un mondo intorno. L’individualismo egoista non è un destino. Credo che le donne dei romanzi raccontino questa possibilità di sentire tutta la vita nel suo bene e nel suo dolore, di poter resistere e vivere».
Ha suggerimenti perché le credenti possano trovare più spazi per essere ascoltate?«Vedo la stessa fatica che le donne in generale devono affrontare per "esserci" nella società. Si trovano a dover essere più brave. Più preparate, più determinate. A far fatica più degli uomini, non solo nella Chiesa. E la crisi non aiuta. Vista la struttura attuale della Chiesa, di fatto governata solo da uomini, sarebbe un bel segno spiazzante, controvento rispetto alla società tutta, un percorso rapido e ben visibile di riconoscimento della donna nei ruoli di responsabilità. Potrebbe essere una buona preghiera per questi giorni di Sinodo!».
L’atteggiamento rivendicativo della teologia femminista sembra non aver raggiunto l’obiettivo. Quale potrebbe essere la strada per un riconoscimento delle peculiarità della donna credente?«Ma la teologia al femminile ha avuto il compito necessario di mostrare che la teologia era malata degli stessi stereotipi sul femminile che attraversavano la società. E di liberare il pensiero teologico da una posizione difensiva in cui si era confinato rispetto al femminile e rispetto a quello che, secondo uno stereotipo appunto, al femminile appariva connesso, cioè il corpo, la sensibilità, l’accudimento, la tenerezza. Adesso semplicemente servono percorsi strutturati che prevedano la corresponsabilità delle donne nella Chiesa. Strutturati vuol dire che non dipendano dalla benevolenza di un vescovo, di un parroco o di un Papa illuminato».