«Fra pochi minuti lei sarebbe apparsa. Si sarebbe seduta di fronte a me. E io avrei dovuto affrontare la sua presenza carico della mia vergogna e del mio pentimento. Consapevole della tragica posizione in cui ero finito per l’evolversi della mia traiettoria personale. Impegnato per molti anni in un ostinato camminare verso il nulla, consacrato al servizio di un caparbio e stupido delirio senza senso che, finché è durato, è stato solo capace di seminare odio e dolore. Quella mattina mi disponevo a chiedere perdono per un crimine imperdonabile ». Nella sala visite del carcere di Nanclares de Oca di Álava, Luis Carrasco Asenguinolaza attendeva Maixabel Lasa. Erano trascorsi undici anni dal loro primo incontro. Alla fine del luglio 2000, si erano trovati a qualche tavolo di distanza in un bar di Tolosa, nel Nord della Spagna. Luis non l’aveva neanche guardata: aveva occhi solo per l’uomo insieme a Maixabel. Nascosto dietro un menù, ne spiava ogni mossa. Doveva cogliere il momento migliore per ucciderlo. Gli ordini dei capi di Euskadi Ta Askatasuna (Eta) erano categorici: «L’obiettivo doveva essere eliminato». E Luis, all’epoca, era un militante cieco e obbediente. Quella volta, però, non poté portare a termine la “missione”: nel locale entrò un gruppo di persone che lo conosceva. Attese qualche giorno e ritentò, senza intoppi. Due proiettili trafissero la schiena di Juan María Jáuregi, ex governatore socialista della provincia di San Sebastián (Guipúzcoa), impegnato nel trovare una via d’uscita pacifica al conflitto che da trentadue anni insanguinava la sua terra, i Paesi Baschi. Proprio per questo gli indipendentisti di Eta l’avevano condannato a morte. La sentenza fu eseguita il 29 luglio 2000 per mano di un commando di tre uomini, guidati da Luis María Carrasco Asenguinolaza. In quel momento, sua moglie Maixabel lo aspettava a casa per il pranzo, insieme alla loro figlia. Che cos’hanno da dirsi l’assassino di un uomo e la sua vedova? E che cosa effettivamente si sono detti carnefice e vittima, quel giovedì 26 maggio 2011, nella prigione dove l’ex etarra sconta la condanna a trentanove anni per il delitto? Se i frammenti di quell’incontro e, soprattutto, i segni che esso ha lasciato nei cuori dei protagonisti sono potuti uscire, è grazie al libro Los ojos del otro (“ Gli occhi dell’altro”), pubblicato in Spagna dalla casa editrice Sal Terrae e già alla seconda edizione nel giro di qualche mese. Le ragioni del successo risiedono nel carattere eccezionale dell’esperimento raccontato: le quattordici riunioni tra un gruppo di ex terroristi e alcuni familiari a cui la furia etarra ha strappato un figlio, un marito, un fratello. «Incontri restaurativi» – in cui si cerca di ristabilire l’umanità negata dalla violenza a partire dalla parola e dall’ascolto reciproco tra vittima e carnefice – accompagnati da un mediatore e avvenuti 2011 e 2012. La partecipazione al programma è chiaramente volontaria e parte da alcune condizioni imprescindibili: il pentimento comprovato e il ripudio inequivocabile del terrorismo da parte dei responsabili che non ottengono, per la loro decisione, benefici o riduzioni di pena. Un percorso inedito per la Spagna. In cui la fine della lotta armata, annunciata dall’Eta alla fine del 2011, non ha rimarginato le ferite troppo fresche per le 829 vite spezzate dal fanatismo nell’ultimo mezzo secolo. La fine di un ciclo di terrore ha rilanciato, anzi, con urgenza la necessità di costruire un nuova convivenza senza rinunciare alla memoria. Il progetto, sostenuto dall’Ufficio per le vittime del governo basco – prima del cambio di gestione tra socialisti e popolari e ora interrotto da questi ultimi – è diventato un libro. Che è, al contempo, testimonianza e grido di speranza. «Dal punto di vista etico, sentivamo di avere dimostrato alla società l’esistenza di esperienze di questo livello nella lotta per la pace. E di vittime e carnefici capaci di tendersi una mano. Il loro esempio meritava di non cadere nell’oblio», racconta ad “Avvenire” la curatrice, Esther Pascual Rodríguez. Direttrice del carcere di Álava e coordinatrice dell’iniziativa, la donna ha fatto da mediatrice in otto appuntamenti. Tutti – afferma – «terribilmente toccanti». Tutti tremendamente difficili. «È un percorso piccolo e stretto, però bellissimo. Che rinnova in chiunque lo attraversi – da protagonista o accompagnatore – la fede nell’uomo. E riempie di contenuto le parole verità, giustizia, memoria. Ho imparato che gli esseri umani sono infinitamente più grandi della sofferenza. La loro bontà non ha limiti ». Certo, all’inizio della riunione, la tensione era palpabile. «Alla fine, però, le vittime scoprivano di aver incontrato un uomo o una donna come loro, non un terrorista. E i colpevoli, dopo il primo choc, si sono sentiti liberati». Dopo un paio d’ore di intenso dialogo, è il momento del commiato tra Luis e Maixabel. Assassino e vedova si scambiano un abbraccio fugace. Maixabel si volta. Sta per uscire dalla stanza. In quel-l’istante si ferma e guarda indietro, verso l’uomo alle sue spalle. I loro sguardi si incrociano. Due esseri umani e i loro dolori si specchiano. L’uno negli occhi dell’altro.