Le colonie italiane restano fuori dalla memoria nazionale e dall’immaginario collettivo. Anche per questo parliamo di invasione e ci fanno paura gli sbarchi di decine di migliaia di cittadini eritrei e, in misura minore, di etiopi e somali. Eppure fuggono dall’ex Africa orientale italiana e sono partiti per ironia della storia dalla Libia, la quarta sponda fascista. Profughi che sono quasi parenti prossimi, magari discendenti delle centinaia di migliaia di coloni, militari e funzionari (sotto il fascismo si arrivò a 600 mila) spediti in Africa in circa mezzo secolo. Un’ampia storiografia ha indagato fatti e misfatti dell’epoca, ma non ne è rimasta grande traccia nella nostra cultura. Perché troviamo questo strano 'buco' nella memoria nazionale, caso unico in Europa? E per quale ragione, invece, l’era coloniale in Eritrea e in misura minore in Etiopia, a 65 anni dal bellissimo
Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, sta tornando a fare da sfondo soprattutto a diversi polizieschi? «La rimozione in particolare del colonialismo in Eritrea avvenne dopo la fine della guerra – spiega
Giampaolo Calchi Novati, autorevole storico a Pavia – quando la Farnesina consigliò a De Gasperi di non far cenno alle colonie. Speravano di non perderle nel trattato di pace perché avevamo finito la guerra come cobelligeranti. Ma l’Eritrea ebbe uno status ambiguo dall’Onu: venne dichiarata una sorta di unità politica con l’Etiopia in vista di una futura federazione. Poi Hailè Selassiè ne decise l’annessione nel 1962 e nessuno protestò». Per Calchi Novati altri fattori spiegano la rimozione dell’Eritrea e dell’Africa orientale dalla nostra cultura: «Primo, il colonialismo demografico del ministro Lessona per spostare l’emigrazione dal Mezzogiorno dall’America all’Africa. Questo fece partire i meno abbienti e spesso non furono esperienze di successo da raccontare. Poi l’Italia fascista fu l’unica a non impiegare truppe coloniali in battaglia in Europa perché con le leggi razziali non poteva mostrare soldati neri in patria. Gli ascari combatterono infatti solo in Libia e in Africa. Terzo, poiché negli anni 50 avevamo perso le colonie, non abbiamo vissuto né l’immigrazione dagli ex territori d’oltremare né la decolonizzazione come Francia e Regno Unito. E non abbiamo riconosciuto quasi nulla ai figli dei coloni italiani. Solo negli anni 60 abbiamo avuto le prime domestiche eritree a Milano. Oggi pochi sanno che c’è stata una guerra d’indipendenza di 30 anni dell’Eritrea dall’Etiopia, che l’Eritrea è uno stato dal 1992 e che c’è stata una nuova guerra tra i due Paesi che ne condiziona ancora i rapporti. Ignoriamo che il regime dell’Asmara è oppressivo e impone ai giovani un servizio militare illimitato che li spinge a fuggire verso l’Europa passando dall’Italia di oggi, nella quale non vogliono neppure fermarsi, nonostante la nostra cultura e la nostra architettura là siano ben presenti». Diversa la prospettiva di
Uoldelul Celati Dirar, storico dell’università di Macerata di origine eritrea, asmarino di nascita e formazione. «La riflessione sull’Italia coloniale – precisa – andrebbe depurata dalla retorica. Primo, gli italiani in Eritrea non furono brava gente. Un abuso e un’aggressione restano tali anche se l’Italia è stata meno violenta di altri. Neppure dobbiamo parlare solo in negativo del colonialismo italiano. Fu diverso, perché la colonizzazione demografica portò in Eritrea molti contadini del sud che non avevano differenze di classe con i poveri del luogo. Quindi ci fu maggiore empatia, anche se alla fine le differenze non si annullavano. Ancora oggi a livello diplomatico il rapporto irrisolto tra potenza ed ex colonia condiziona le relazioni tra Roma e Asmara». Molti italiani rimasero nel dopoguerra. «Si, restò una comunità fiorente in Etiopia ed Eritrea fino agli anni 70. Però sfatiamo l’altro mito delle infrastrutture degli italiani che hanno consentito una certa prosperità. Le vie di comunicazione e l’impianto urbanistico di città come Asmara furono costruiti bene e sono ancora un asse portante per l’Eritrea, ma dovevano garantire ai coloni e non ai locali una certa qualità della vita. Il colonialismo non è stato rimosso dalla cultura italiana. C’è una intela ressante attività accademica e storiografica sul periodo. Ma tutto ciò non passa sui media e nella letteratura, dunque non entra nell’immaginario degli italiani». Il primo ponte tra accademia e narrativa lo ha gettato
Luciano Marrocu, storico dell’università di Cagliari, nei primi anni 2000 con
Debrà Libanòs, (Maestrale), poliziesco ambientato ad Addis Abeba nel 1937. Protagonisti sono due agenti dell’Ovra, la polizia segreta fascista, che, inviati a scovare l’omicida di una camicia nera, scoprono un massacro di religiosi etiopi orchestrato dal vicerè Rodolfo Graziani per vendicare l’attentato in cui è stato ferito. Un romanzo che fa a pezzi il mito degli italiani brava gente. «Graziani era un criminale di guerra – esordisce lo studioso – di cui ci siamo dimenticati, visto che Affile gli ha dedicato un sacrario nel 2012. Dopo l’attentato scatenò pogrom con migliaia di morti. Uno è quello di Debrà libanos, dove i fascisti massacrarono oltre 1000 tra diaconi, catechisti e sacerdoti ortodossi. La rimozione di queste pagine buie è avvenuta nel dopoguer- ra a opera di parte delle classi dirigenti che volevano metter tutto a tacere. Da qualche tempo coordino un gruppo di studio di giovani ricercatrici sulla memoria coloniale. Abbiamo trovato foto con teste di africani decapitate dalle truppe italiane. Certo, il nostro fu un colonialismo di popolo, quindi il rapporto con gli africani fu diverso ad esempio da quello degli inglesi, ma li consideravamo subalterni e alla fine degli anni 30 c’erano le leggi razziali. Da qualche anno la letteratura sta riscoprendo quel periodo. È importante perché alla cultura serve l’immaginario». Operazione in cui è decisamente impegnato
Carlo Lucarelli, al secondo poliziesco storico in Eritrea. Ha di recente pubblicato il romanzo breve
Albergo Italia (Einaudi), ambientato tra Asmara e Massaua alla fine dell’800. Impegnati a risolvere un intrigo con delitto, traffico d’armi e l’ombra della mafia sono una originale coppia di investigatori, il capitano Colaprico dei regi carabinieri di Asmara e lo zaptiè Ogbà, uno Sherlock Holmes abissino, che torneranno in un prossimo romanzo. «La memoria di quel tempo è sparita – afferma – oggi pochi sanno dov’è l’Asmara. Mi spiace vedere che trattiamo da stranieri persone che dell’Italia sono quasi parenti ». Perché Lucarelli, che ha alle spalle una grande esperienza sui misteri italiani e una moglie eritrea, esplora proprio il periodo coloniale? «Ho trovato l’epica italiana – commenta lo scrittore – le colonie sono il nostro far west. Studiando la storia di quelle terre e di quegli anni lontani ho trovato inoltre molte analogie con l’Italia di oggi e storie e personaggi incredibili che nessuno ha raccontato. Tocca agli scrittori portare quelle vicende nell’immaginario degli italiani. Però occorre evitare la narrazione ideologica e raccontare invece con onestà». Sembra la via giusta per interessare il pubblico all’Africa di ieri e quindi a quella di oggi, che ci arriva in casa.