domenica 21 ottobre 2018
In scena a Roma l’attore palermitano che racconta lo strazio di un pescatore di migranti costruendo un’epica e tragica narrazione sospesa tra la vita e la morte
Il drammaturgo e attore Davide Enia sul palco del Teatro India a Roma

Il drammaturgo e attore Davide Enia sul palco del Teatro India a Roma

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Una parola che si fa carne. Concreta, viva, insostituibile, necessaria. È l’unica possibilità per tentare di scandagliare le profondità di un’abissale tragedia e le voragini dell’animo umano che la deve fronteggiare. Lo sa bene Davide Enia, il drammaturgo, attore, narratore palermitano cresciuto alla scuola del cunto di Mimmo Cuticchio e che, sin dai tempi del suo spettacolo di culto Italia-Brasile 3 a 2, fa attraversare il verbo su ogni fibra del suo corpo. Stavolta però si tratta davvero di un Verbo caro factum est perché protagonisti della sua narrazione, L’abisso, in scena al Teatro India di Roma fino al 28 ottobre, sono i Gesù di oggi, gli stranieri in cerca di accoglienza, i naufraghi con il loro disumano calvario, il loro indicibile strazio, la loro atroce “Passio”. Deuteragonisti di questi settantacinque minuti i lampedusani come Paola e Melo, la coppia che, superata l’istintiva paura del “chiudiamoci dentro” di fronte al primo inaspettato sbarco notturno, si armano di torce elettriche e strappano corpi esanimi alle onde del mare, li rianimano, li riscaldano, li sfamano. O come Vincenzo, il custode del camposanto memoria vivente del culto millenario dei morti, che di ogni corpo si prende cura lavandolo, profumandolo, restituendo la dignità perduta a quelle identità smarrite e irrecuperabili.

E ad aprire e chiudere il racconto di Davide Enia, che a Lampedusa ha trascorso un anno per incontrare, intervistare, assistere agli sbarchi, conoscere e vivere sulla sua pelle e dentro il suo cuore un suo personale vertiginoso e quasi ineffabile naufragio, c’è il “rescue swimmer”. È un eroe ignoto, dietro le quinte, non sotto i riflettori della scena, fuori da risonanze mediatiche. È il sommozzatore che sulla motovedetta calza muta arancione e si tuffa senza tentennamenti durante le operazioni di soccorso. È enorme, come lo stesso Enia sottolinea più volte, con un fisico addestrato da speciali e massacranti allenamenti a sopportare fino all’estremo e allo stremo le avversità marine e psichiche: «Noi sommozzatori siamo abituati alla morte… in mare si muore. Un calcolo sbagliato e si muore. Basta pretendere troppo da sé e si muore. Sott’acqua la morte ci è compagna, sempre». Ma la vita è l’altra ossessione del gigante del salvataggio; quella dei naufraghi che non ha colore, etnia, religione perché ogni vita è sacra: «Si aiuta chi ha bisogno, è la legge del mare. Stop». È più di un mantra – racconta l’affabulatore palermitano –, è un atto di devozione. Non è di sinistra il “rescue swimmer”, intervistato da Enia a patto di non registrare nulla, anzi la sua famiglia era monarchica, lui addirittura fascista, ma la sua missione va al di là della fazione politica, lo scopo della sua esistenza è salvare vite. Di drammi ne ha vissuti tanti, come quando ha dovuto scegliere fra tre persone che stavano andando a fondo a cinque metri da lui e una madre e un bambino che affogavano un po’ più distanti. Tre vite sono più di due. La cruda e arida matematica gli impose l’azione da intraprendere, ma la ferita se la porta ancora dentro.

«Un San Sebastiano trafitto da scelte lancinanti» lo definisce non a caso Enia. La sconvolgente confessione del sommozzatore dà l’avvio in realtà a un viaggio fatto di rivelazioni tremende, a tratti impossibili da elaborare: si va dagli svelamenti dei pescatori esausti e rassegnati nel tirare su le reti ricche di frutti del mare e dei resti della disperazione umana. Ogni volta assieme al pescato c’è un cadavere di uomo, donna o “picciriddu”. Ogni volta il fermo di un mese della barca. Si rivela anche la ragione dell’abbondanza di spigole: «Sai di cosa si nutrono?... Ecco». Enia riporta e rivive il racconto nevrotico e sincopato dell’anatomopatologo sconvolto dalla deformità dei resti dei naufraghi, quello delle donne con gli organi sessuali bruciati perché costrette a stare sedute in basso al centro del gommone dove ristagna una miscela di nafta, acqua marina e urina, quello degli stupri quotidiani che subiscono ogni giorno fino allo sbarco. Ma è proprio la crudezza e la disumanità dei fatti che impone al narratore asciuttezza nei toni e controllo assoluto delle corde emotive pur senza tradire il calore di una intima condivisione. Non mancano gli antichi canti dei pescatori, le tirate ritmiche del cunto palermitano per arrivare nel finale a declamare una sorta di decalogo del “rescue swimmer”; un vademecum preciso, meticoloso, dettagliato e funzionale allo scopo primario e alla priorità assoluta: come salvare, salvaguardarsi e rinforzare la devozione alla vita. Si concede infine Enia un messaggio sulla questione migranti che volutamente lascia implicito affidandosi al mito di Europa, profuga ante litteram, in quanto la giovane figlia del re di Tiro dalla Fenicia sul dorso di un toro bianco attraversò il mare fino a raggiungere Creta. È, quindi, L’abisso di Enia un autentico “naufragar”, di certo non dolce, bensì asperrimo ma necessario come questo teatro.

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