domenica 18 luglio 2010
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Su via al-Karamah il traffico è intenso. I taxi si fermano per fare scendere donne avvolte in sari indiani e famiglie di filippini, mentre gruppi di giovani africani si uniscono al flusso inarrestabile di centinaia di persone dirette verso la cattedrale di San Giuseppe. Il cortile della parrocchia è invaso da migliaia di bimbi appena usciti dal catechismo settimanale. È venerdì nella parrocchia di Abu Dhabi. E, anche se qui le campane non suonano, basta varcare l’ingresso del quartiere per avvertire che oggi è un giorno di festa. Perché negli Emirati Arabi, come in tutto il Golfo Persico, la domenica si adatta ai ritmi dell’islam, ma non per questo si celebra in tono minore.Le messe elencate sulla bacheca della cattedrale sono dieci: si comincia alle 6 e mezza di mattina mentre l’ultima celebrazione della giornata, quella in arabo, è alle 20.15. In mezzo, messe in inglese, tagalog, malayalam, urdu, seguite spesso da gruppi di preghiera carismatici che si tengono contemporaneamente nei vari saloni dello stabile. Per farsi un’idea di che cosa sia la vita in una grande parrocchia del Golfo, basta scorrere lo schema usato da padre Muthu per calcolare il «numero di ostie da preparare per le celebrazioni»: la media è di trentamila particole alla settimana! Padre Muthu, cappuccino, è il parroco di San Giuseppe. «La nostra è una comunità emblematica della Chiesa in questa terra, a cominciare proprio dalla concentrazione dei parrocchiani, che sono circa centomila, e dall’incredibile mix di nazionalità: in cima all’elenco i numerosissimi filippini e indiani – spiega il sacerdote, lui stesso originario dell’India –. Negli ultimi due decenni il numero dei fedeli non ha smesso di aumentare, parallelamente alla crescita della regione che continua ad importare dall’estero sia le "braccia", sia i "cervelli" indispensabili per il suo fulmineo sviluppo: la nostra Chiesa è fatta di immigrati». C’è chi resta solo per un breve periodo e chi è già qui da venti o trent’anni. Quella del Golfo è una Chiesa "precaria", sia perché i cristiani, in quanto stranieri, sono obbligati ad abbandonare il Paese allo scadere del contratto di lavoro e comunque all’età della pensione, sia perché la libertà di cui godono in tema di pratica religiosa è limitata agli stretti confini del quartiere parrocchiale. Niente processioni, niente simboli religiosi evidenti, niente crocifissi in cima alle chiese, e l’elenco delle limitazioni sarebbe lungo per questo angolo della Chiesa globale tanto remoto e sconosciuto quanto cruciale per la cristianità. Mentre tutto il Medio Oriente, infatti, assiste a un più o meno drammatico esodo dei cristiani, proprio nella Penisola arabica, che secondo i sunniti è tutta terra sacra all’islam, il numero dei fedeli di Gesù cresce senza sosta. E la loro presenza, sebbene discreta, è viva ed entusiasta. «La nostra fede è più forte qui che in patria!». A pronunciare la frase forse più ricorrente nelle parrocchie di tutto il Golfo Persico è Nila Sanchez Bandigan, infermiera filippina che vive ad Abu Dhabi da ventotto anni. «Per noi immigrati cristiani questo è il posto migliore nel Medio Oriente», afferma Nila, che fa parte del Consiglio pastorale di San Giuseppe. E racconta di quando, nel 1983, «gli sceicchi parteciparono alla cerimonia per l’inaugurazione della nuova chiesa». Proprio per questo clima di apertura, sul futuro si sente "ottimista". Non tutti condividono questo stato d’animo. Theresa, catechista, viene dal Pakistan e ha seguito negli Emirati il marito Joseph che lavorava come tassista. In seguito alla recessione, però, Joseph è rimasto disoccupato e ora la preoccupazione è forte, «soprattutto per la casa». Theresa e Joseph vivono nella cucina di un appartamento: «In città è normale – raccontano –. Visto che gli affitti sono alle stelle, c’è chi subaffitta locali ad altre famiglie». Per tante persone che affrontano l’angoscia della precarietà, la Chiesa rappresenta spesso l’unica fonte di aiuto materiale, oltre che un essenziale punto di riferimento, spirituale e comunitario. «Qui la parrocchia è anche un po’ casa, visto che è uno dei pochi contesti dove i fedeli possono prendersi cura della propria identità», racconta il vicario apostolico d’Arabia, Paul Hinder.Il vescovo svizzero, seduto nell’ufficio del vicariato che confina con la moschea Mohammad Bin Zayed, descrive con trasporto i fedeli di cui è responsabile da cinque anni: «Si tratta di una comunità con una fede forte, entusiasta, che lascia gli europei sorpresi e increduli. Certo, non posso negare che ci siano problemi e limitazioni, per esempio la carenza cronica di spazi, o il divieto di accettare conversioni dall’islam… Quanto mi manca, in questo senso, la meravigliosa libertà che abbiamo in Europa! Eppure…». Eppure? «Essere vescovo qui è stupendo! I cristiani sono pieni di speranza, pronti ad offrire supporto. Qui in parrocchia, alla messa delle sei e mezza di mattina, ci sono sempre tra le cento e le duecento persone, e moltissime vengono in chiesa alla sera, dopo aver lavorato tutto il giorno. Ecco: io so per chi sono qui». Il vescovo Hinder "è qui" anche per tantissimi giovani. Come Arleen, venticinque anni, esponente dell’immigrazione qualificata proveniente dal Kerala e animatrice del gruppo giovani-adulti della parrocchia di Jebel Ali, fuori Dubai. O come Joy, connazionale che, invece, vive nel campo di lavoro di Mussafah, alla periferia di Abu Dhabi. «Per gli operai che abitano in queste città-ghetto avere un punto di riferimento è vitale: sono soli, vivono in condizioni estreme e tendono a cadere in una spirale di crescente miseria, anche umana», spiega George, un ingegnere meccanico che ha fatto fortuna nel settore dei motori. Nel retro del suo garage, a Mussafah, George ha ricavato una cappella dove decine di lavoratori si ritrovano ogni sera per pregare nella loro lingua natale e scambiarsi esperienze e fatiche. Ma non c’è solo sofferenza da condividere, tra la sabbia e i grattacieli del Golfo Persico. C’è anche tanta allegria e speranza. A cominciare da quella dei ragazzi, che magari qui sono nati e sentono questa terra come casa propria. «Se mi piace vivere ad Abu Dhabi? Certo! Ho amiche da tutto il mondo: pachistane, libanesi, egiziane, cingalesi… Insieme facciamo sport, andiamo alla spiaggia o passeggiamo nei centri commerciali». Shola, sedici anni, frequenta la scuola gestita dalle suore carmelitane ad Abu Dhabi, la prima scuola privata aperta nell’emirato, nel 1966. Alunni e insegnanti sono cristiani, indù e musulmani. Sanaa, una compagna, racconta che vorrebbe diventare giornalista: «Ho già fatto uno stage alla rivista "Abu Dhabi Weekly"!», esclama. In futuro, si immagina all’università. Dove, però, non lo sa: «Magari in Inghilterra…», butta lì. Secondo l’inflessibile legge degli Emirati, nessuna di queste ragazze potrà mai ottenere la cittadinanza. Ma intanto sono proprio loro che si preparano a contribuire in modo sostanziale alla crescita di questa società e forse, un giorno, aiuteranno a cambiarla in meglio.
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