venerdì 23 ottobre 2015
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Herder aveva fatto le pulci a Winckelmann: criticava la presunta anticipazione dei greci sostenuta dal grande storico dell’arte classica, e metteva in luce l’assimilazione da parte dei greci di elementi esogeni, presi da altre culture, cogliendo l’analogia fra lo stile dei greci arcaici e quello egizio (come, peraltro, tra alcune divinità egizie e greche). Diceva Herder: «Vorrei che qualcuno indagasse questi passaggi da arte ad arte, da popolo a popolo», nella giusta convinzione che la presunta evoluzione degli stili in base all’epoca storica ( Winckelmann fu il primo ad applicare questa idea) riguarda la trasmissione culturale, dunque la tradizione, e non è frutto di uno sviluppo naturale, che nei greci si manifesterebbe come una sorta di miracolo irripetibile. Herder aveva una la netta convinzione che l’Oriente fosse all’origine delle civiltà, e questo lo portava a ridimensionare il “miracolo greco”. Ma, in fondo, non aveva poi così sbagliato. E Winckelmann neppure, anche perché è proprio grazie alle sue abilità nel riconoscere un certo “stile egizio” nella scultura romana che egli ci ha aperto lo sguardo sul primato dell’arte dei faraoni. L’applicazione di comparatismo e analisi fenomenologico-stilistica consentì a Winckelmann di svelare l’inganno. Per molto tempo si erano considerate certe “imitazioni” romane come originali egizi, per esempio le sculture per Villa Adriana. Grazie all’analisi stilistica Winckelmann capì che si trattava di “imitazioni” e lo dobbiamo a lui se certi sviluppi successivi dell’archeologia egizia sono stati possibili. La seconda metà del Settecento determina un’accelerazione nella scoperta di questa civiltà. L’eruditissimo padre Athanasius Kircher si era a lungo applicato già nel Seicento per decifrare i geroglifici ma senza grandi progressi. La Stele di Rosetta arrivò in Francia nel 1799 (come bottino delle campagne napoleoniche) e poco più di vent’anni dopo Champollion svelò il codice ideogrammatico egizio. La nostra conoscenza dell’Egitto, insomma, è ancora troppo recente per comprendere bene questa civiltà.  Ora ci è data una buona occasione per mettere alla prova non tanto le nostre capacità di penetrare i misteri linguistici egiziani (naturalmente, chi ha il privilegio di esserne un cultore sistematico potrà afferrare cose meno evidenti a noi comuni mortali), ma di comprendere o almeno intuire dove si generi il fascino imperituro dell’arte egiziana. Grazie alla joint-venture culturale fra il Museo civico archeologico di Bologna e il Rijksmuseum van Oudheden di Leida possiamo ammirare fino all’estate prossima cinquecento oggetti e opere provenienti dal Museo olandese che è in fase di riallestimento.  Come scrivono nell’introduzione al catalogo (Skira) Paola Giovetti e Daniela Picchi, curatrici della rassegna, quello che vediamo dipanarsi lungo le sale del Museo è «un percorso processionale costellato di stele e di statue che datano dal Medio Regno sino all’Epoca Tarda». Cioè all’incirca dai primissimi anni del II millennio fino quasi alla fine del I millennio (con qualche affondo successivo). Ma la cosa forse più interessante da notare è che le due curatrici definiscono questo lunghissimo itinerario storico come «un luogo senza tempo». Perché l’aspirazione di ogni egiziano pare che sia sempre stata quella di diventare Osiris. Di partecipare al divino. Osiride era il dio della vita e della morte, la sua collocazione nell’oltretomba lo rendeva il punto a cui tendere per ogni egiziano che cercava la vita eterna. Questo è il fascino tremendo della sacralità egizia. Una religione della morte celebrata come sublime bellezza e perfezione. Esisteva infatti una gerarchia, e certamente anche una dimensione elitaria molto chiara, ma la piramide egizia è forse più articolata del solido perfetto a cui si è ispirato anche l’architetto sino-americano Pei quando ha ideato la struttura del nuovo ingresso al Louvre nel 1989. E se vogliamo ne ha interpretato anche lo spirito “infero”, osiridiano, poiché dalla piramide di vetro si scende nella hall che smista il pubblico alle varie sezioni del museo e si ha, ancora oggi, l’impressione di entrare in un mausoleo funerario.  La mostra di Bologna non nasce come operazione d’immagine. Il monumentale catalogo ne dà testimonianza con saggi brevi ma puntuali e una conduzione tematica dove dopo aver risalito per così dire il Nilo fino alle origini storiche della civiltà egizia, segue un itinerario in cui illustra il modello teocratico, documenta il rispecchiamento nel mito di Osiride, getta uno sguardo sull’arte militare e il controllo dentro e fuori i confini egiziani, mostra la miniera di informazioni e di testimonianze emerse dalla necropoli di Saqqara nel Nuovo Regno (e approfondisce la scoperta della tomba di Horemheb), traccia l’affresco della vita quotidiana e la presenza del divino in ogni attività dell’uomo egizio, e segue infine la trasformazione del I millennio, dove il “senza tempo” che aveva reso quasi immobile la stessa evoluzione della rappresentazione del mondo e del suo rapporto col soprannaturale, si “abbassa” di tono aprendosi a devozioni più popolari di divinità zoomorfe (nota Salima Ikram che è più frequente all’epoca la mummificazione animale: in mostra troviamo mummie di gatti, ibis, pesci, serpenti, falchi, e il coccodrillo che all’archeologico bolognese è sempre stato una delle attrazioni delle scolaresche in visita esplorativa...).  L’arcaicità e l’astrazione sono le due componenti fondamentali di una iconografia sacra che nasce da dettami “sacerdotali”. È qui, dopotutto, che si apre il solco maggiore fra egizi e greci. La nobile semplicità e quieta grandezza che Winckelmann vedeva nel naturalismo greco, reso algido e classico ai suoi occhi per la mancanza del colore che anticamente invece ricopriva molte di quelle statue su cui si è fondata l’estetica neoclassica, è di segno totalmente opposto nell’arte egizia, sia quella più antica sia quella più tarda. Il mondo egizio precede l’ideale greco di perfezione attraverso una stilizzazione che distilla lentamente un connotato di primitività via via più lineare dove dinamismo e stasi trovano il punto di collasso e di condensazione in una iconografia che articola geometrie cubiche e sferiche, volumi che presentano sempre una frontalità ipnotica (per esempio nelle statue-cubo o nei vasi-canopi): forme testimoni del divino, immobili e irradianti al tempo stesso. Si potrebbe dire che l’elemento che congiunge due millenni di storia egizia è la potenza sintetica, espressiva, l’intensità piuttosto che l’imitazione della natura. E se l’orizzonte è questo si spiega anche l’icastica essenzialità ed eleganza delle forme che ha inciso su alcuni scultori del Novecento, da Moore, Brancusi e Giacometti a Martini (la posa del Servitore alla macina del III millennio a.C. la ritroviamo con una drammatizzazione espressiva, nella Lupa dello scultore trevigiano). In definitiva, la permanenza della forma ieratica, essenzialmente impersonale, del canone egizio segna la “differenza” sostanziale di quest’arte da quella del mondo grecoromano. Bologna, Museo civico archeologico EGITTO Splendore millenario Fino al 17 luglio 2016
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