Fu una rivoluzione. Zucchero, caffè, tè, tabacco irruppero nella vita quotidiana degli europei, scardinarono le vecchie concezioni del consumo e del lusso, inaugurarono nuove (e fiorenti) rotte commerciali. Cosa accomunava questi prodotti? La loro origine extraeuropea. Come mostra in
Le isole del lusso. Prodotti esotici, nuovi consumi e cultura economica europea, 1650-1800 (Utet, pagine 284, euro 24), Marcello Carmagnani - docente di storia dell’America latina e presidente del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi - la storia di questi prodotti smentisce un’idea «costantemente ripresa dalla pubblicistica terzomondista»: il ruolo marginale a cui sarebbe inchiodato tutto ciò che non è Europa.
Professor Carmagnani, siamo abituati a una storia eurocentrica. Il suo studio mostra come in realtà l’immagine dei paesi extraeuropei come soggetti passivi sia in realtà parziale, se non falsa. Qual è allora il contributo che questi paesi hanno dato alla nascita del consumo moderno?«È ora di superare l’immagine negativa che attribuisce soltanto alle società europee la capacità di evolvere positivamente mentre le extraeuropee sono viste come società statiche, passive, per effetto della dominazione esterna. L’eccesso d’ideologia - dallo strutturalismo degli anni 1970 alle tendenze postmoderne o decostruttiviste - ha finito col farci dimenticare la capacità dimostrata dal mondo extraeuropeo colonizzato di darsi un’organizzazione produttiva. Una struttura capace di produrre beni in grado di competere con quelli europei, come avviene con i tessuti indiani tra il 1650 e il 1800. Ma anche di offrire prodotti nuovi e attrattivi: prodotti che contribuirono a trasformare, modernizzandoli, i consumi europei».
Con i prodotti esotici viaggiava anche lo scambio culturale, la possibilità di conoscere, di compenetrarsi con le altre culture?«Esiste un’interazione tra la crescita economica e lo sviluppo culturale. Gli economisti classici, come Pietro Verri e Adam Smith, ci hanno spiegato che la teoria economica è l’incontro tra il piacere e la felicità che si ottiene soddisfacendo i nostri bisogni, tanto materiali quanto culturali. Questi due autori considerano che il fine ultimo della produzione sia il consumo, obiettivo che si ottiene liberalizzando il commercio e consumando quotidianamente non solo i generi di prima necessità e di lusso ma anche quelli esotici».
Tra i prodotti extra europei entrati nel nostro quotidiano c’è il caffè. Che, come mostra lei, ha una storia "avventurosa" e in parte ancora sconosciuta. Ce la riassume?«L’avventura del caffè è un ottimo esempio della capacità dimostrata dalle aree asiatiche e americane di offrire all’Europa e al mondo un prodotto di qualità a prezzo decrescente nel corso del XVIII secolo. L’originale produzione e commercializzazione del caffè dello Yemen si espande rapidamente in Asia, con le nuove coltivazioni a Giava e nell’isola di Ceylon (Sri Lanka), e in America, nelle Antille e nella Guyana. È però nel mondo americano che si produce la miglior qualità di caffè e a un prezzo molto inferiore al caffè yemenita, col risultato che le importazioni provenienti dall’America aumentano da 1.000 a 55.000 tonnellate annue tra il 1690 e il 1800 mentre quelle asiatiche ristagnano e quelle dello Yemen scompaiono anche in Egitto e in Turchia. L’America superò l’Asia e la penisola arabica poiché riuscì a sviluppare la produzione nelle piantagioni, combinando l’abbondanza di terra esistente e la scarsità di manodopera con l’introduzione di nuove tecniche produttive».
I prodotti non sono semplici cose, ma veicolano atteggiamenti desideri, abitudini simboli, sono cioè delle piccole scatole nere dalle quali si può desumere la storia dei costumi, dell’economia. È una visione corretta?«È questa la grande novità offerta dalla nuova scienza economica del Settecento. Una scienza comparsa in Europa a spargere una nuova luce che permette di capire le connessioni che hanno fra loro i diversi legami della società che rendono possibile, come scrive Verri, "la pubblica felicità". Mi sembra incredibile che l’insegnamento dei fondatori dell’economia politica non sia stato sufficientemente recepito dagli studiosi che oggigiorno si occupano dell’economia della felicità e dell’economia sostenibile».
La sua indagine mostra come il commercio del tè, del caffè e dello zucchero abbia disegnato una sorta di globalizzazione ante litteram. Dobbiamo ricavarne che la globalizzazione era già una realtà nell’età moderna?«Gran parte degli storici economici vedono l’origine della globalizzazione nella crescita del commercio internazionale nell’età moderna. Senza alcun dubbio a partire dalla scoperta dell’America e soprattutto durante la rivoluzione commerciale del XVIII secolo, si espande l’internazionalizzazione economica e culturale. L’internazionalizzazione favorì la crisi delle monarchie assolute e aprì la porta alla libertà politica, al costituzionalismo moderno, e alla nuova forma dello stato nazionale. A differenza dell’internazionalizzazione, la globalizzazione, quella vera, richiede non solo dell’economia ma anche della capacità dei cittadini di poter scavalcare le frontiere nazionali e di vedere garantiti i diritti umani».