Zamenhof ed Esperanto sono due asteroidi che ruotano fra le orbite di Marte e di Giove; a scoprirli, nel 1936 e nel 1938, fu l’astronomo ed eminente esperantista Yrjö Väisälä. Ecco una delle sagge informazioni che Louis Christophe Zaleski- Zamenhof, nipote dell’inventore dell’esperanto Ludwik Lejzer Zamenhof, fornisce nel librointervista di Roman Dobrzynski Via Zamenhof (Giuntina, pp. 282, euro 15, in libreria dal 15 ottobre). A 150 anni dalla nascita del polaccolituano Zamenhof (Bialistok 1859 – Varsavia 1917) e a oltre un secolo da quella della sua «creatura » (26 luglio 1887), per i più l’esperanto resta ancora un tema di portata astronomica. Fu del resto una missione spirituale, prima che grammaticale, quella di creare una sintassi per l’universo; e Zamenhof la compì anche in virtù della sua radice ebraica: «La necessità di una lingua internazionale (in esperanto: lingvo internacia ) su un piede di parità nessuno la può sentire tanto quanto un ebreo che è obbligato a pregare Dio in una lingua morta da tanto tempo, che riceve la sua istruzione nella lingua di un popolo che lo respinge, che ha compagni di sofferenza in tutto il mondo e non si può capire con loro…». Così scriveva Zamenhof, autore del Primo Libro, che altro non era se non un opuscolo di 40 pagine di cui appena 6 dedicate alla «grammatica completa» e un altro paio in cui aveva fatto stampare il vocabolario con le «900 radici » della nuova lingua. Un grande calderone linguistico in cui il Doktoro Esperanto, conoscitore e amante del latino e greco, aveva accuratamente gettato gli odori e i sapori di alcune lingue neolatine, il tedesco e l’inglese in primis, poi una spruzzata di quelle slave, con russo e polacco ingredienti naturali. «Dal sistema grammaticale Zamenhof scelse abilmente quanto è comune, le cose più semplici, e subordinò il tutto a una regolamentazione senza accezioni », sottolinea il nipote. Questo perché le due qualità fonda- mentali dell’esperanto, secondo il suo fondatore, dovevano essere la straordinaria semplicità e quindi la facilità nel parlarla. Due problemi che per Zamenhof e gli esperantisti della prima ora, trovarono rapida soluzione. «La facilità del suo studio è così grande – è la testimonianza della grande anima della letteratura russa Lev Tolstoj – che avendo ricevuto 6 anni fa una grammatica, un vocabolario e degli articoli scritti in questa lingua, dopo poco più di due ore potevo se non scrivere, almeno leggere liberamente in questa lingua ». L’idea di universalismo e di fruizione libera e veloce della lingua fu la vera «speranza» di Zamenhof; una liberalità che ha permesso all’esperanto di sopravvivere e di dare una spallata anche al tentativo di annientamento che – prima dei malefici totalitarismi del ’900 – fecero alcuni suoi nemici, linguisti concorrenziali. A cominciare dai seguaci del volapük – «lingua del mondo» –, altro idioma artificiale internazionale apparso poco prima dell’esperanto. A concepirla era stato il prete cattolico di Baden e poliglotta (conosceva 70 lingue) Johann Martin Schleyer: «Il quale – spiega il nipote di Zamenhof – aveva creato un vocabolario di parole inglesi e tedesche abbreviate a una sola sillaba ». Ma il volapük si estinse in fretta, era lingua morta già prima della scomparsa di padre Schleyer, avvenuta nel 1912. La disponibilità di Zamenhof a modifiche e miglioramenti, invece, emerse subito al primo convegno di Boulogne-sur-mer nel 1905, in cui si diedero appuntamento esperantisti di 20 Paesi. Oggi i fedelissimi sono presenti in 120 Stati, con eminenze grigie che usano l’esperanto per pubblicazioni di vario genere, da quelle scientifiche alla filosofia, alla poesia (lo scozzese William Auld, il sudafricano Edwin de Kock, il brasiliano Sylla Chaves), alle traduzioni della D ivina Commedia, del Corano, della Bibbia. Proprio scendendo dagli scalini sdruccioli della Torre di Babele, l’idea di una lingua internazionale si ritrova nell’Utopia di Tommaso Moro, nelle opere di Nostradamus, Cartesio, Leibniz, Comenio, Newton, fino al «Solresol» di Sudre, ovvero la combinazione delle note musicali che si fa lingua «formando 13.699 parole». Tutti falliti tentativi di regalare all’umanità una lingua unica prima di arrivare alla tipografia Kelter di Varsavia, che stampò la prima copia dell’esperanto, nonostante sia ancora irrisolto il terzo problema fondamentale di Zamenhof: ovvero quello di una massima divulgazione che riuscisse a «vincere l’indifferenza del mondo ». Ma l’esperanto è vivo, conta quasi due milioni di persone sparse nel pianeta in grado di comprenderlo e divulgarlo; come fa – tra l’altro – la cattolica lnternacia Katolika Unuigo Esperantista. «Negli ultimi anni soprattutto Internet è diventata una grande scuola e una biblioteca di esperanto. Molte opere non vengono più stampate, ma sono consultabili in rete». È la voce della terza generazione degli Zamenhof, quella di Louis Christophe, a ricordare che al terzo problema di nonno Ludwik forse suo padre Adam aveva trovato la soluzione: l’introduzione nelle scuole. E questa è forse la grande sfida esperantista del Terzo Millennio, una strofa da aggiungere al loro inno La Espero dal quale da più di un secolo cantano al mondo: «Sotto il segno santo della speranza/ si raccolgono combattenti di pace/ e veloce cresce la Cosa/ con l’impegno di chi spera»..