E quando fu che, probabilmente a torto, l’elevazione divenne il punto centrale della messa? Lo sappiamo con esattezza: fu tra l’XI e il XIII secolo, in ambiente cluniacense, in Italia e Francia soprattutto; e – particolare da paradosso – all’inizio i vescovi ne erano parecchio preoccupati, poiché pensavano che la cosa potesse degenerare in idolatria... Escono curiosamente insieme, e per la medesima editrice Edb, due volumi che trattano in modo diverso del culto eucaristico e in specie dell’elevazione dell’ostia: gesto che secoli di rito e di devozione hanno caricato d’enfasi, ma che andrebbe più profondamente ricompreso, soprattutto nel clima teologico ed ecclesiale dell’epoca in cui nacque. I testi sono quello postumo di Rinaldo Falsini (francescano liturgista, grande protagonista della riforma conciliare)
Celebrare e vivere il mistero eucaristico ( pp. 158, euro 14,50, a cura di Mirella Susini) e
Spazi e immagini dell’Eucaristia. Il caso di Orvieto ( pp. 280, euro 26,70) curato da Gianni Cioli, Severino Dianich e Valerio Mauro, dove quest’ultimo – cappuccino, docente di Teologia sacramentaria – firma un lungo saggio proprio su « Vedere l’ostia » . Perché se l’eucaristia trova la sua origine nell’atto del mangiare ( « Prendete e mangiate » ), è fondamentale e istruttivo capire attraverso quali evoluzioni l’interesse prevalente si spostò invece sul guardare. Lo spiega padre Mauro, collocando tale tendenza in « una sorta di tensione spirituale » collettiva del Medioevo che esprimeva il « desiderio di contemplare » l’ostia, anche per essere più vicini e partecipi all’umanità di Cristo; d’altronde ormai da qualche secolo la teologia enfatizzava la presenza reale eucaristica e anche nei fedeli cresceva ( contemporaneamente alla riduzione delle comunioni) l’interesse a « vedere » il sacramento. Una sorta di elevazione esisteva già nel rito originario della messa, ma al momento della comunione e della formula « Ecco l’Agnello di Dio » . Furono dall’XI secolo i cluniacensi ( ordine appena costituito e molto attivo in quell’epoca) ad accentuare il gesto previsto nelle rubriche del messale romano quando, al momento di dire « Prese il pane » , si doveva portare l’ostia all’altezza del petto: essi cominciarono invece a sollevarla alta sopra la testa, a volte nel momento stesso in cui pronunciavano le parole della consacrazione. L’innovazione piacque molto ai fedeli, ma non altrettanto alla gerarchia la cui « preoccupazione pastorale – scrive Mauro – si rivolse soprattutto a evitare gesti di adorazione indebita, qualificata tranquillamente come idolatra » ; in effetti, il rischio di interpretare quell’atto in modo superstizioso o addirittura magico non era lontano dalla realtà: c’era chi riteneva che la visione dell’ostia equivalesse al sacramento ( si parlava addirittura di « comunione visiva » od « oculare » ) e « molti entravano in chiesa per assistere all’elevazione e, una volta finito il rito, se ne ritornavano alle loro occupazioni » , disinteressandosi completamente del resto della messa. Si pensava inoltre che tale pratica preservasse per quel giorno dalla morte improvvisa e la credenza non è del tutto estranea al fatto che si cominciarono a suonare le campane alla consacrazione, in modo che i circostanti potessero letteralmente correre in chiesa ( ci sono notizie persino di resse e incidenti). A loro volta i preti erano sollecitati a tenere l’ostia alzata il più a lungo possibile, oppure a ripetere l’elevazione varie volte, mentre un chierico teneva un cero alzato alle spalle del celebrante affinché i fedeli potessero vedere meglio il tondo bianco portato verso l’alto... Avevano dunque ragione i vescovi a tentare di regolamentare questa devozione, che si propagò molto rapidamente in Europa ( a tutt’oggi, l’elevazione è sconosciuta agli ortodossi); e, se già nel 1219 papa Onorio III raccomandava di inchinarsi con riverenza alla consacrazione, intorno alla metà del XII secolo si sentì la necessità di annettere all’elevazione un sovrasignificato spirituale, stringendo un’analogia con l’innalzamento di Cristo sulla croce. Vengono composte anche apposite orazioni – alcune delle quali tuttora in uso – da pronunciare mentre si fissa il pane consacrato. D’altronde nel 1274 viene istituita la festa del Corpus Domini, con relativa processione cittadina ( in pratica un’ « elevazione » prolungata e pubblica): « Dall’interno della celebrazione – scrive padre Falsini – il culto reso all’ostia è stato portato fuori in processione, cui seguirà l’esposizione » ; e il culto eucaristico si stacca così sempre più dalla messa, trovando spazi a sé come quelli dell’adorazione: la quale ha il suo perno nell’ostensorio, oggetto sostitutivo del gesto sacerdotale dell’elevazione. La visione e il « riconoscimento » dell’ostia funzionano peraltro come attestato di ortodossia, contro le varie tendenze ereticali che negano la presenza reale nell’eucaristia. Si tratta però – crede ancora Valerio Mauro – di un risultato « pagato a caro prezzo. La visione devota dell’ostia non può essere messa sullo stesso piano della partecipazione alla mensa eucaristica » . Più tardi verrà la controversia luterana ( che non a caso accuserà di idolatria l’adorazione dell’ostia) e la conseguente riforma cattolica nella quale – ancora Falsini – « si consuma la netta divisione tra altare e tabernacolo » : da allora in poi il culto eucaristico puntato sullo sguardo « polarizza la pietà cattolica post- tridentina » oscurando l’aspetto di comunione, praticamente fino al Vaticano II. Ma il processo non va interpretato solo nei suoi lati più discutibili. Attraverso una « rivoluzione » proveniente dal basso, dal mondo laicale ( come spesso accade nei cambiamenti della Chiesa), infatti, l’elevazione dell’ostia e i successivi collegati sviluppi cultuali danno voce a un desiderio profondamente umano, quello del « vedere » , che dai secoli bui ad oggi non è affatto diminuito di valore – anzi! – ed è comunque culturalmente e teologicamente assai legato al credere. Il cappuccino Mauro cita l’esempio del fondatore, il Poverello d’Assisi, per il quale la visione con gli occhi del corpo costituiva l’elemento forte di una spiritualità sempre e comunque collegata al Vangelo: «L’animo di Francesco ci aiuta a comprendere una possibile interpretazione del desiderio medievale di vedere l’ostia. Abbandonando ogni deriva magica o superstiziosa, possiamo cogliere in quel gesto così distante dalla nostra prospettiva culturale e liturgica i presupposti per un’espressione autentica della fede... Il desiderio in se stesso era animato da uno spirito evangelico: la visione come possibile passo verso una fede piena e matura » . Severino Dianich «Il miracolo del corporale» affrescato da Ugolino di Prete Ilario nella cattedrale di Orvieto