Se si riprende in mano il secondo volume delle opere di Heinrich Böll nei Meridiani Mondadori, il grande scrittore tedesco morto nel luglio di 30 anni fa, si resta sorpresi dalla passione che anima ugualmente i suoi romanzi (l’ultimo capolavoro,
Foto di gruppo con signora, continua e continuerà a essere di una vitalità formidabile, con i suoi personaggi di irregolari guidati dal sentimento della giustizia e della solidarietà, e che bensì questo sentimento prima di dichiararlo lo praticano) e i suoi scritti "politici", una scelta significativa e coinvolgente. Nella
Lettera a un giovane cattolico del ’58, Böll rivendica il diritto alla gioia e si lamenta dei «teologi (che) ci rifiutano l’altra cosa di cui si vive, la parola, e del resto rimane sempre da chiedersi se domani avremo ancora pane». Ecco una sintesi perfetta del suo pensiero, che cresce dai bisogni veri dell’uomo, il pane e il verbo, ma rivendicando con essi il diritto alla gioia, a vivere pienamente nel tempo e nella storia, assumendosi tutte le imposizioni e le sventure che vengono dall’essere vivi e dunque dentro la storia, però insieme ad altri, in comunione con altri e godendo con altri della meraviglia del mondo e del dono di esistere. Nella
Lettera ai miei figli o delle quattro biciclette e in
La paura che hanno e la paura che fanno i tedeschi (1976), tornano altri temi che hanno dominato la sua riflessione e le sue narrazioni: il nazismo e la guerra, la Germania e la sua identità culturale, le sue colpe e i suoi doveri. Altrove, mescolati ai suoi "elogi" degli scrittori dalla cui opera si è sentito coinvolto (Ingeborg Bachmann, Singer e Solzenicyn, la Seghers e la Wolf e tanti altri di tante nazioni, compresa la nostra Morante quando uscì
La Storia e Böll la difese con l’adesione che meritava), ci sono quelli sui grandi temi del Novecento, sulle terribili impasse del secolo: la persecuzione degli ebrei, il "socialismo reale" e cioè la dittatura sovietica che, oltre al resto, divideva in due la Germania, le infinite storture di un capitalismo dominatore e distruttivo, quelle di una cultura che le accetta e di un giornalismo che se ne nutre (
L’onore perduto di Katharina Blum, un romanzo-pamphlet, critica le ciniche mistificazioni del giornalismo degli anni settanta del Novecento, ma sa anche prevedere lucidamente la decadenza e il servilismo del sistema mediatico a cui accettiamo oggi di sottostare), il culto della violenza e i suoi esiti terroristici. E quando scrive del «secolo dei profughi» parla ancora una volta del suo presente, del nostro oggi e del nostro domani. Dovessimo dire in poche parole cosa ha distinto la sua opera da quella degli altri grandi dello scorso secolo, diremo che in lui tutto, in definitiva, prende le mosse dalla più radicale e inquietante delle domande che l’uomo si è sentito porre
ab initio: «Dov’è tuo fratello?».Abbiamo amato di Heinrich Böll la sua coerenza ma anche la sua disponibilità a ricredersi, una volta viste le cose in faccia, con un atteggiamento da san Tommaso nel bisogno della verifica, di andare al sodo di una questione senza accontentarsi di risposte ideologiche transitorie, superficiali. Della sua opera abbiamo amato anche le imperfezioni, una certa fretta di dire che ci sembrò sempre assolutamente onesta, e che in qualche modo seppe anteporre all’estetica l’etica. Non fu uno stilista e molti glielo rimproverarono, anche tra i suoi estimatori - ma le
Opinioni di un clown, i
Racconti umoristici e satirici (tra i quali l’assoluto gioiello
La bilancia dei Balek, più chiaro di qualsiasi testo di Brecht nell’andare al fondo della questione sociale - i rapporti di proprietà - ma a partire dal limpido sguardo di un bambino, cosa che mai è riuscito a Brecht di fare) e quelli del
Nano e la bambola sono di una perfezione essenziale che dà loro una intensità degna dei classici (dei Kleist e dei Fontane, dei Mann e dei Musil). Diciamo, in definitiva, che dopo la morte di Albert Camus (1960) molti di noi trovarono in Heinrich Böll il nutrimento di cui avevano bisogno, un punto di riferimento teorico e un modello letterario di cui in Italia solo la Morante e la Ortese riuscirono a darci un equivalente, talora addirittura più profonde di loro. Mancò agli altri nostri maestri che praticavano letteratura e "politica" (Calvino e Pasolini, Silone e Chiaromonte, Sciascia) quell’afflato religioso, quella ricerca e quella tensione verso le verità prime e ultime, a cui Böll non esitava a richiamarsi. Anche Böll è rimasto, per questo, per il confronto costante tra storia e religione, tra corpo e spirito, un "non riconciliato" con la società (
Non riconciliati si chiamò il film che Jean-Marie Straub trasse dal suo romanzo
Biliardo alle nove e mezzo): un cristiano che è riuscito spesso a sconcertare, per il suo radicalismo, sia i cattolici che i protestanti e sia i laici che i socialisti. Non è il contrasto tra il narratore e il politico quello che egli ha vissuto e rappresentato, bensì quello tra il religioso e il politico. La narrazione stava nel mezzo, era il luogo della contraddizione da abitare, la chiave per il dialogo con dei lettori considerati non come gli utenti parassitari di fantasie altrui, ma come, semplicemente, un "prossimo" appena meno prossimo dei più vicini.