giovedì 26 febbraio 2015
Un volume che raccoglie gli scritti giovanili di monsignor Bello rilancia l’interesse per questo profeta della Chiesa dell’accoglienza. «Per avere credibilità dovremmo stare dalla parte degli ultimi»
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«Non giudicare: allarga piuttosto l’anima tua alla comprensione dei problemi altrui». Ancora: «Condividere, comunicare con la gente che vive in periferia». E poi: «La Chiesa, la parrocchia, da elemento missionario, è diventata struttura di conservazione». E proseguendo: «Per acquistare credibilità, dovremmo dare prova autentica e generosa di voler stare dalla parte dei poveri, senza demagogia e senza esclusioni». E anche: «L’instabilità del lavoro, l’incertezza di trovarlo anche quando è richiesto, la retribuzione meschina svantaggiano in modo evidente nei suoi più fondamentali diritti la personalità». Frasi, espressioni e moniti di papa Francesco? No, interventi, omelie e scritti di don Tonino Bello. Che vanno dal 1954 al 1982. Anni in cui il futuro vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi – del quale si è chiusa la fase diocesana del processo di beatificazione – era seminarista all’Onarmo di Bologna, e poi vice-rettore del Seminario nella sua diocesi, Ugento, e quindi parroco a Ugento e Tricase.

Era accaduto nei decenni scorsi che qualcuno avesse messo al bando o strumentalizzato le parole del pastore pugliese e presidente di Pax Christi morto il 20 aprile 1993 (che per tutti resta don Tonino Bello). Parole forse troppo profetiche per il periodo in cui il fratello “sul passo degli ultimi” e della “convivialità delle differenze” le pronunciava. Oggi possono essere riprese anche alla luce del magistero di papa Bergoglio. «I santi sono i grandi sognatori della Chiesa. E a questa categoria appartiene don Tonino», sostiene il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli. È lui che con Renato Brucoli ha raccolto gli scritti ugentini (in parte rimasti inediti) di questo “infaticabile costruttore di pace” nel volume La terra dei miei sogni (Ed Insieme, pagine 680, euro 25).

Ha ventuno anni e sta per essere ordinato prete quando nel 1957 Tonino spiega sul periodico del Collegio Santa Cristina a Bologna: «Nella piccola bottega del carpentiere, ai margini di una remota borgata di Palestina, un uomo riconsacrava col suo divino sudore la dignità del lavoro». Sarebbe rientrato nella diocesi di Ugento l’anno successivo per dedicarsi alla formazione dei nuovi preti. Loro che «saranno il Cristo che passa tra gli uomini facendo del bene», annota nel ciclostilato del Seminario. Vive il Concilio che lo segna nel profondo. «La liturgia diventi vita dei nostri fedeli», esorta nel 1964 dal bollettino diocesano. E commentando l’enciclica Humanae vitae chiarisce in alcuni appunti del 1968 che «la Chiesa non è moralista» e va «esercitata una paternità responsabile».

L’hanno definito “scrittore ispirato”. Ed è vero. «Verrebbe la voglia di dire che la civiltà dei consumi, se qualcosa di positivo ha da suggerire sul piano spirituale, dovrebbe stimolarci a una minore taccagneria col Signore. “Confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi almeno a Pasqua”. Quanta malinconia in quell’almeno...», pungola nel 1971. E al funerale di sua zia Assunta incalza: «Non “vivi e lascia vivere”. Ma “vivi e aiuta a vivere”».

Da parroco avverte che il Consiglio pastorale non è «un espediente tattico con cui la Chiesa vuole verniciare la sua facciata ricorrendo a tinte democratiche» e c’è bisogno della «responsabilità di tutti». Dal pulpito dice: «Vedere una chiesa stracolma di gente può costituire l’aspirazione suprema di un parroco? Se fossimo impresari di pompe liturgiche, sì. Ma lo scopo che abbiamo è un altro: creare una comunità di credenti». Di fronte al rischio del malaffare, ammonisce: «Il lavoro di un manovale onesto vale più del lavoro di un chirurgo disonesto. Mi sembra già di vedere la fierezza dipingersi sul volto dei miei poveri».

Un “profeta” ha anche il coraggio della denuncia. E nel 1968 don Bello biasima una fede fatta di «tante piccole devozioni che ci immergono in una spiritualità chiusa, gretta, egoista e senza slanci». Nel contribuito per il Sinodo dei vescovi del 1974 sottolinea che il linguaggio religioso è «teorico, astratto, incomprensibile, di scarsa presa». Quando gli viene assegnato il titolo di monsignore, ammette di sentirsi «braccato dalle guardinghe ipoteche del monsignorato». E nel 1980 rinuncia alla nomina episcopale per «insufficienza» e «indegnità», scrive alla Congregazione per i vescovi. Accetterà nel 1982 e chiederà nel suo primo messaggio di spartire «il pane e la tenda». «Occorre spalancare la finestra del futuro progettando insieme, osando insieme, sacrificandosi insieme. Da soli non si cammina più», si legge nel testo poetico La lampara. È il congedo dalla sua terra prima di trasferirsi a Molfetta. E sono i versi che oggi danno il benvenuto nella sua casa natale di Alessano trasformata in museo dalla Fondazione Don Tonino Bello.  

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