Come ogni centenario, anche quello di Augusto Del Noce porta con sé bilanci, nuove letture e prospettive, all’insegna del «ciò che è vivo e ciò che è morto». Seguendo di poco il centenario di Bobbio, amico e contraltare intellettuale, quello di Del Noce non avrà forse la stessa ampiezza d’iniziative ma non sarà meno significativo. Tra le varie possibilità di proseguire il suo lascito ne tocco qui una. Il problema dell’ateismo (1964), la sua opera maggiore, si incentrava sull’ateismo marxista, allora in pieno vigore ma oggi crollato miseramente: il «suicidio della rivoluzione», preconizzato da Del Noce, si è compiuto e accade quando il marxismo fa propria la lettura «borghese» e materialista della vita. «La ricomprensione italiana del marxismo attraverso la versione rivoluzionaria dello storicismo si risolve in una sua ricomprensione illuministica» (
Il suicidio della rivoluzione, 1978): il comunismo in versione gramsciana diventa una componente sconsacrata della società radicale, che consente allo spirito borghese di realizzarsi allo stato puro. Saint-Simon e Comte prevalgono su Marx e Gramsci. Il suicidio della rivoluzione dipinto da Del Noce avviene attraverso la politica, in cui si intende creare l’uomo nuovo mediante la prassi civile. L’esito è spesso stato fallimentare e sanguinoso, come nei totalitarismi. L’altra grande rivoluzione è quella attraverso la scienza, e tutti siamo in grado di valutarne il successo, la potenza, e di non intravederne la fine. Essa non si suicida affatto, anzi tenta di mettere mano sull’uomo e spesso ci riesce: non si autodissolve ma avanza promettendo benessere, salute e una quasi-immortalità. Caduto il marxismo, rimangono il relativismo morale e lo scientismo tecnologico. Dinanzi alle due forme della città degli atei, la comunista e la tecnocratica, sorge la domanda su quale sia la forma più radicale di ateismo: Marx o Comte? Ci sono buoni motivi per ritenere che l’ateismo scientistico sia più intenso, freddo e meno soggetto a dubbi. Esso attua un tentativo di mutazione antropologica attraverso le biotecnologie, una comprensione evoluzionistica dell’io come soggetto casuale, e tappa ogni minimo spazio entro cui possa sentirsi la nostalgia di Dio. L’ateo scientista non sente la mancanza di Dio come mancanza, è naturaliter irreligioso. Lo stesso problema dell’ateismo andrebbe ripensato a fondo in rapporto all’eclissi dell’idea di Dio (e dell’uomo) che si verifica nell’attuale situazione spirituale, richiedendo rinnovate ricerche. La sequenza franco-italiana Cartesio-Pascal-Malebranche-Vico-Rosmini in cui Del Noce vedeva – del resto con validi motivi – la linea della vita della filosofia moderna, non pare forse sufficiente ad interpretare la vittoria dello scientismo e del deserto secolaristico che esso veicola, e ad animare la necessaria resistenza. È naturale che anche il problema della secolarizzazione sia da ripensare, avvenendo essa oggi assai più attraverso la natura e il naturalismo che attraverso la storia e lo storicismo. La grave crisi dell’idea di Dio veicolata dall’obiezione scientistica comporta l’attacco all’idea d’uomo. Lo scientismo sogna molto e si illude che, una volta eliminato Dio, sia possibile salvare in qualche modo l’uomo. Da ricordare sono le parole di Max Horkheimer: «Tutti i tentativi di fondazione della morale su una saggezza di questo mondo anziché sul riferimento a un aldilà riposano su illusioni di impossibili concordanze». Non è possibile mantenere fermo un senso assoluto senza Dio. Il marxismo teneva aperto uno spazio minimo – certo suo malgrado – per Dio poiché parlava d’alienazione e di giustizia, temi pericolosi per un ateismo conseguente. Ma lo scientismo? Esso si rifiuta di pensare. Sembra una frase ad effetto ma è la pura verità quando uno consideri le poche righe in cui Richard Dawkins vorrebbe liquidare il problema Dio, e non fa altro che dipingere la sua completa inconsapevolezza filosofica del tema (cfr.
L’orologiaio cieco). Ora per riprendere alla base questi problemi ci si deve fondare su una filosofia che sia in potenza attiva verso il futuro, e Del Noce la individuò verso la fine della vita. Nel
Giovanni Gentile (1989) scrisse che lo scacco dell’idealismo riapriva la possibilità storica della filosofia dell’essere, ritrovata in specie attraverso Gilson. Così egli si ricongiungeva implicitamente alle idee di Felice Balbo che intorno agli anni ’60 aveva con singolare acume speculativo indicato nella filosofia dell’essere di Tommaso la linea della vita del filosofare, nonostante le diversità di valutazione tra i due amici su non pochi punti: uniti però nel dare il primato a quel tomismo esistenziale (Maritain, Gilson, Fabro) che è il frutto migliore della filosofia dell’essere del XX secolo. Essi anticipavano il giudizio della
Fides et ratio, secondo cui tale filosofia, fondata sull’atto stesso dell’essere, è aperta a tutta la realtà sino a raggiungere Colui che a tutto dona compimento. Del Noce ha dunque indicato nella filosofia dell’essere l’edificio intellettuale che riapre il cammino dopo la crisi del neoidealismo gentiliano; diagnosi che andrebbe completata indicando nella stessa filosofia (e antropologia) quella che può superare Comte e il suo assoluto ateismo. Questo compito è lasciato a noi, insieme alla valorizzazione del realismo, che Del Noce colse ma non ebbe tempo di completare.