mercoledì 9 dicembre 2009
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È morto ieri nella sua casa romana lo storico ed ex senatore Gabriele De Rosa. Aveva 92 anni. La camera ardente è allestita all’Istituto Luigi Sturzo, in via delle Coppelle a Roma. I funerali avranno luogo luogo domani alle 11,30 nella Chiesa di Sant’Agostino, officiati dal cardinale Achille Silvestrini. Per Gabriele De Rosa cultura e impegno civile erano strettamente connessi. E, forse, per un uomo dal carattere e dalla biografia battagliera, era l’unico modo di vivere la vita pienamente e senza rimpianti. Ufficiale dei granatieri a El Alamein, membro della Resistenza nella Roma occupata dai nazisti, primo biografo "autorizzato" da don Luigi Sturzo, di cui raccolse dalla viva voce le memorie e i ricordi, portava in quell’ambiente accademico, di cui era membro e protagonista, una passione civile, un’attenzione al tempo presente, un’analisi profonda e un amore per i poveri e i perseguitati davvero unici. Pur essendo un frequentatore di archivi e un ricercatore finissimo e rigoroso, tutto in lui era così distante dallo stereotipo del topo di biblioteca, prigioniero di carte e documenti. Anche a livello fisico: corporatura imponente, sguardo severo, andatura fiera, voce baritonale. Per non parlare del suo carattere: uno spirito forte, libero, indipendente, profondamente ironico, spigoloso a volte, ma capace di momenti di grandissima dolcezza.Non fu dunque un caso che da giovanissimo riuscì a imporsi nell’ambiente accademico in anni in cui nelle università dominava l’egemonia comunista: e, non avendo una scuola alle spalle, divenne rapidamente lui stesso un caposcuola. Insieme a pionieri come Fausto Fonzi e Pietro Scoppola restituì alle vicende del movimento cattolico italiano, per molti anni trascurate dalla storiografia, il ruolo e la dignità che a esse spettano nella storia italiana. E se nel mondo cattolico c’era chi si lamentava che i manuali di storia dei licei erano tutti orientati a sinistra, De Rosa non si associava ai piagnistei e rispondeva alla sua maniera: scrivendone lui uno. Fu dunque naturale per lui, ex cattolico-comunista "convertito" dall’incontro folgorante con Sturzo al cattolicesimo democratico, seguire con interesse e passione le alterne vicende politiche italiane e della Dc. Schierandosi, da uomo libero e mai da gregario, con le componenti della sinistra democristiana più attente all’evoluzione della politica, alle riforme sociali e ai temi del rinnovamento. Battendosi per il dialogo, ma erigendo sempre un muro di intransigenza nei confronti del decadimento morale, del malcostume, della corruzione e della contiguità tra politica, mafia e poteri occulti. Per De Rosa, che da intellettuale aveva collaborato strettamente con Aldo Moro – preparandogli, tra l’altro, la traccia per il famoso e bellissimo discorso in memoria di don Sturzo tenuto al teatro Eliseo nel 1959 – la candidatura al Senato, nelle liste della Dc, nel 1987, fu quasi uno sbocco obbligato. Erano i tempi in cui, a Palazzo Madama, lo scudocrociato faceva eleggere un piccolo numero di intellettuali cattolici, i cosiddetti esterni. De Rosa, che si trovò subito a fianco di personalità come Roberto Ruffilli, Niccolò Lipari, Leopoldo Elia, non era però un esterno. Ma, a ben vedere, nemmeno un interno. Già in quegli anni la sua forza, il suo prestigio, la sua competenza andavano ben oltre lo schieramento a cui pure, con convinzione, apparteneva. Era, davvero, un monumento vivente. Lo conobbi in quegli anni, giovane praticante giornalista alla Discussione, il settimanale della Dc. Flavia Nardelli, segretario generale dell’Istituto Sturzo, di cui De Rosa era presidente, mi propose di occuparmi dell’ufficio stampa di un convegno, fissandomi un incontro con il Professore. La figura di De Rosa era circondata da un’aura di timore. Entrai nella sua stanza trepidante. Mi scrutò, con quell’inconfondibile espressione tra il burbero e il bonario, mi indicò una sedia e cominciò a chiedermi notizie sulla Dc. Contrariamente alle aspettative era affabile ed estremamente cordiale. Ma la cosa che mi stupì di più era che avesse perso molto tempo (la conversazione durò più di un’ora) ad ascoltare le opinioni di un giovane alle prime armi. Lui era fatto così.La crisi di Tangentopoli, la decimazione giudiziaria della classe dirigente democristiana, obbligò De Rosa a impegnarsi ancora più a fondo nella politica attiva. Fu proposto per l’incarico, faticoso e, in quella stagione tormentata, delicatissimo di presidente dei senatori democristiani. Un ruolo che non avrebbe mai cercato, ma che accettò con spirito di servizio, mostrando equilibrio, competenza, onestà e altissima dignità in un momento in cui tutto gli stava franando intorno. Di lì a poco la Dc, dopo aver eletto segretario Mino Martinazzoli, chiuse i battenti.Sulle sue ceneri rinacque il Partito Popolare Italiano, che avrebbe dovuto rappresentare il meglio della tradizione politica cattolica, depurata dalle scorie di troppi anni di permanenza al potere. De Rosa si buttò a capofitto, con entusiasmo, nella nuova impresa. E aprì le porte dell’Istituto Sturzo al battesimo ufficiale della nuova formazione politica, di cui divenne presidente. Come sappiamo, il secondo Ppi ebbe vita breve e travagliata. In quel periodo i contatti tra il Professore e me, cronista parlamentare, si intensificarono notevolmente. Ricordo come fosse oggi quando, deferito ai probiviri e sospeso dal partito per aver appoggiato Gerardo Bianco contro Buttiglione, si sfogò amaramente con me in Transatlantico. E qualche tempo dopo mi disse: «Abbiamo fatto lo stesso errore, quello di considerare possibile la rinascita di un partito sturziano in Italia, dove di personalità come Sturzo ormai non ce n’è nemmeno l’ombra». Amareggiato dalle successive vicende politiche, che considerava una vera involuzione della democrazia italiana, uscì dalla vita parlamentare. Ma non per questo smise di fare politica. Con due obbiettivi principali: difendere la figura unica e irripetibile di don Luigi Sturzo dai ricorrenti tentativi di appropriazione indebita; combattere il revisionismo storico di chi voleva negare, in toto, la dignità e il valore etico della Resistenza. Di fronte a questi atteggiamenti il vecchio e leone di El Alamein tornava a ruggire con la forza di sempre.
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