Lo storico americano Robert Darnton, che ha partecipato ieri al Festivaletteratura di Mantova
Pur considerandosi ottimista di natura, ultimamente anche a Robert Darnton capita di vacillare. «Sono contrario alla banalizzazione di parole come 'censura' o 'fascismo' – dice –, ma devo ammettere che la situazione internazionale è tutt’altro che buona». Nasty , l’aggettivo inglese al quale il professore fa ricorso, ha una sfumatura che sta a mezza strada fra la malvagità e il disgusto. Niente di buono, appunto. Nato a New York nel 1939, Darnton ha dedicato la sua lunga attività di studioso alla storia del libro, con particolare riguardo alla Francia prerivoluzionaria e rivoluzionaria del XVIII secolo. In questo e in altri campi Darnton è un’autorità riconosciuta e, nello stesso tempo, rimane un accademico anomalo, che non rinnega la sua giovanile esperienza di giornalista e continua a osservare con curiosità e attenzione il mondo in cui vive. Anche per quanto riguarda il rapporto fra censura e letteratura, del quale parlerà domani al Festivaletteratura: la lezione si svolgerà alle 12 presso il Conservatorio Campiani: l’argomento è lo stesso di uno dei suoi saggi più recenti, I censori all’opera (Adelphi), che ha in catalogo molti altri suoi titoli importanti. «La mia ricerca – spiega – va dal Settecento francese ai regimi comunisti del Novecento».
Trent’anni fa lei è stato testimone oculare della caduta del Muro di Berlino.
«Sì, in quel periodo ero in Germania per motivi di studio e ricordo molto bene il clima di attesa e di speranza che attraversava l’Europa e del quale, purtroppo, oggi si fa fatica a ritrovare le tracce. È come se fosse venuta meno l’audacia che per tanto tempo ha caratterizzato la cultura europea e che, dal mio punto di vista, rappresenta uno dei tratti più affascinanti dell’Illuminismo. So bene che, quando si adopera questa parola, molti continuano a immaginare una stagione dominata da un razionalismo talmente estremo da risultare spietato, ma è una visione parziale, che non può essere assolutizzata».
Qual è invece la sua interpretazione?
«Per me la storia dell’Illuminismo è fatta anzitutto di dedizione personale, di passione civile, di lotta contro la persecuzione, come quella intrapresa daVoltaire nell’ affaire Calas a dispetto di ogni convenienza, con l’unico obiettivo di non tradire un sentimento universale di giustizia. Più ancora della ragione, il valore più alto consegnatoci dall’Illuminismo coincide con la politesse : una forma di cortesia reciproca che crea un vincolo di solidarietà fra tutti gli esseri umani. Anche la famosa frase finale del Candide , quella che invita a “coltivare il proprio giardino”, andrebbe letta nella prospettiva di una “coltivazione” che è, appunto, espressione di una cultura, di una civiltà».
Un’eredità da recuperare?
«Quello che andrebbe recuperato è, più in generale, il rapporto con un passato dal quale abbiamo ricevuto molto più di quanto crediamo. E dal quale possiamo ancora imparare moltissimo, anche nell’ambito del dibattito politico».
Può fare qualche esempio?
«Con il mio ho cercato di rispondere a una domanda che gli storici si sono posti posta per la prima volta più di un secolo fa: che cosa leggevano i francesi all’epoca della rivoluzione? Capirlo non è facile, perché perfino i cataloghi delle biblioteche private sono spesso reticenti e, per motivi di sicurezza, evitano di menzionare testi che pure ebbero larga diffusione, come Il contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau o le opere dello stesso Voltaire. In compenso vengono menzionati frequentemente i cosiddetti livres philosophiques, libelli nei quali lo scandalismo va di pari passo con l’enunciazione di princìpi ritenuti sovversivi».
Sì, ma qual è il legame con l’attualità?
«Dalla grande letteratura illuminista, e nella fattispecie dagli scritti di Montesquieu, i livres philosophiques attingono una nozione determinante, quella del dispotismo come degenerazione della convivenza politica. In più, però, aggiungono una serie di elementi che ci risultano decisamente familiari: lo scandalismo, la diffamazione, la personalizzazione spregiudicata delle accuse. In quel contesto, si tratta di un espediente che permette di far circolare il concetto di dispotismo, che altrimenti sarebbe rimasto relegato nelle cerchie intellettuali. Oggi come oggi, dobbiamo costatare che gli attacchi personali hanno del tutto soppiantato ogni altra argomentazione. Guardi che cosa accade negli Stati Uniti: non si discute più di problemi concreti e ci si limita a un desolante scambio di colpi bassi».
E con la censura come andiamo?
«È una categoria alla quale occorrerebbe attingere con molta prudenza, se non altro in segno di rispetto verso le sofferenze di tante persone che, in un passato anche recente, hanno lottato per la libertà di espressione. Da qualche tempo, al contrario, c’è la tendenza a vedere la censura dappertutto, con il rischio che, alla fine, la parola perda di significato. Secondo una teoria piuttosto in voga, il mercato editoriale eserciterebbe una forma di controllo largamente assimilabile a quella svolta dallo Stato sotto il comunismo. Questo, almeno, è quello che sostenevano i censori della ex Ddr con i quali ho avuto modo di dialogare. Il paragone non mi sembra corretto. Ogni autore si confronta idealmente con il pubblico, è vero, ma questo non significa che nella nostra testa sia nascosto l’omino verde di cui parlava lo scrittore tedesco Erich Loest: una specie di diavoletto che sussulta davanti a ogni affermazione azzardata, ci suggerisce di ripensarci e poi, eventualmente, ci denuncia alle autorità».
Eppure sul web i casi di cancellazione di contenuti inappropriati non sono infrequenti.
«Il quadro è in evoluzione e, di norma, non riguarda la letteratura o, più in generale, la pubblicazione di libri, ma l’e- voluzione del giornalismo. Il punto sul quale occorrerebbe fare chiarezza riguarda la natura di piattaforme come Facebook e Twitter, che non vogliono essere considerate imprese editoriali anche se, di fatto, come imprese editoriali si comportano, specie nella selezione e nell’eventuale rimozione delle informazioni. Ci troviamo in una fase molto pericolosa, che ci sta portando a mettere in discussione la funzione stessa del giornalismo. Diversamente da quanto accade nell’industria del libro, in quella dei giornali l’apporto della pubblicità è decisivo in termini di sostenibilità economica. Solo che le inserzioni sulla carta stampata sono molto meno numerose e remunerative rispetto al passato, senza che questi mancati introiti siano sostituiti da altro. La conseguenza più vistosa è il declino del giornalismo professionale, che porta con sé la perdita del senso di responsabilità proprio del buon reporter. Al posto di notizie verificate ora circolano opinioni incontrollate. Ed è questa assenza di un’informazione critica a rappresentare, oggi più che mai, una concreta minaccia per la democrazia».