«Non si dovrebbe sostituire la contemplazione del cielo con la contemplazione degli schermi». A prima vista, può sorprendere che a lanciare sottovoce questo monito vagamente dantesco sia Paul Virilio, urbanista e da decenni maître à penser fra i più rispettati d’Oltralpe. Ma l’altro volto del 'pensatore della velocità', coi suoi vezzi e le sue sorprendenti trouvaille lessicali da raffinato intellettuale, è il Virilio cristiano, preoccupato dell’umana condizione ben oltre i recinti della pura speculazione d’accademia. La fondazione Cartier di Parigi ospita attualmente l’esposizione multimediale 'Terre natale', in cui il filosofo 'dialoga' col cineasta Raymond Depardon sui tema della sedentarietà e del nomadismo ai tempi della globalizzazione.
Professore, la crisi attuale sarebbe dovuta alla capacità dell’economia finanziaria, 'virtuale', di contaminare e travolgere anche quella 'reale'. Si può davvero divenire vittime della virtualità? «Lavoro da trent’anni sulla velocità, ovvero sull’accelerazione della realtà. La questione della virtualità riguarda il passaggio alla velocità delle onde elettromagnetiche. Tale passaggio ha condizionato il nostro rapporto con l’economia, con la strategia e persino le nostre abitudini, attraverso ciò che si suole chiamare 'telerealtà'. Esiste un grande pericolo di fronte all’emersione di un sesto continente, il cyberspazio. Assistiamo a un fenomeno di colonizzazione della realtà contrassegnato da una volontà di potenza, di controllo e di sostituzione delle origini simile a quella di altre colonizzazioni del passato. Personalmente, non sono contro le nuove tecnologie. Ma ogni evoluzione del progresso è accompagnata da incidenti di grande ampiezza, come sosteneva Hannah Arendt».
Lei è anche urbanista. Pure la nostra idea di città sta cambiando?«La città moderna è figlia della prospettiva rinascimentale, di una visione geometrica del mondo. Ma oggi la città è posta dinanzi alla prospettiva del tempo reale, ovvero l’immediatezza e l’ubiquità. In un certo senso, gli assi urbani rettilinei sono sempre più sostituiti dagli schermi, divenuti nuove piazze pubbliche. Per i cittadini cambia dunque il rapporto verso la realtà. Ancor più che la città intesa architettonicamente, ad essere investita è la città come entità politica. Mi chiedo se esisterà ancora una sedentarietà urbana».
Cosa intende? «I veri sedentari paiono oggi coloro che su un treno, così come in ascensore o in aereo, riescono a restare sempre connessi. In fondo, si sentono sempre a casa loro. Mentre chi resta escluso dalle tecnologie di comunicazione appare sempre più come un nomade, fuori posto in ogni angolo del pianeta».
Analizzando la globalizzazione, lei ha sottolineato l’attualità del mito della Torre di Babele. Perché? «Oggi, la Terra si rivela troppo piccola per un certo tipo di progresso, quello legato a un profitto immediato, a corta scadenza. La Terra ha dei limiti geofisici, i limiti della biosfera, come ci ricorda l’ecologia. L’istantaneità e le interconnessioni delle borse, della grande finanza mondiale, rischiano così di provocare crolli babelici e l’attuale crisi finanziaria sta evidenziando ciò. Ma al contempo, il mondo non è affatto troppo piccolo per i progetti umani. In questo senso, sono pieno di speranza e non credo a nessuna fine della storia. Credo semplicemente ai limiti della biosfera».
Credere per lei è un verbo forte. Cosa porta la sua fede di cristiano a questa riflessione sulla condizione contemporanea? «Una speranza che sormonta qualsiasi predizione. I limiti della geografia non sono la fine del mondo. Viviamo in un momento cruciale che dovrebbe veder nascere una nuova università, come quelle che all’epoca sorsero a Bologna o a Parigi. Intendo, cioè, una nuova intelligenza collettiva di fronte a questi limiti della materia, della nostra territorialità, a quest’unica terra. Auspico la nascita di ciò che ho definito un’università del disastro, di un’intelligenza collettiva del disastro, ovvero dei danni del progresso. Si tratta esattamente di una forma di conoscenza capace di opporsi a tutte le profezie catastrofiste o apocalittiche, che personalmente trovo ridicole».
Cosa vuol dire per lei, nel mondo di oggi, essere cattolico? «Significa essere universale, dunque aver già pensato la globalità attraverso Cristo e l’unicità della fede in Dio. In un certo senso, la parola cattolico rivela oggi un interesse particolare. Finora, il termine universale è stato spesso inteso nel senso che gli è stato dato dall’astrofisica. Ma, come cristiano, mi oppongo a coloro che immaginano come avvenire potenziale per l’umanità la scoperta di un fantomatico pianeta abitabile, un pianeta surrogato da sostituire alla Terra divenuta inabitabile. Ancora una volta, vi è in ciò uno spirito tipicamente colonialista, questa volta in chiave astronautica, paragonabile a quello del cyberspazio di cui parlavo».
Lei si definisce come un contemplativo spesso disturbato dalla nostra epoca tanto rumorosa. La contemplazione ha un avvenire? «Certo. Si è molto parlato delle rivoluzioni e dei rivoluzionari. Ma forse non si è parlato abbastanza della Rivelazione. Quando vengo accusato di pessimismo, rispondo con questa sorta di gioco di parole: no, non sono pessimista, sono 'rivelazionario'. La crisi ecologica è una rivelazione, non una rivoluzione. Il mondo è semplicemente troppo piccolo per alcune delle nostre follie».