mercoledì 17 giugno 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
Nel Cinquecento, l’Italia fu patria di duelli eleganti e letali, e di una letteratura dotta che rifletteva sui risvolti etici e religiosi del duello. I manuali italiani dell’arte cavalleresca regolavano in tutt’Europa lo stato dell’arte. Ma i moralisti cristiani la giudicavano una pratica non cristiana che dissipava vite per il punto d’onore, il puntiglio. Nell’indagare sulla storia del duello in Italia – in Politics of the Sword. Dueling, Honor and Masculinity in Modern Italy (Ohio University Press) – lo storico Steven C. Hughes ricorda che fu la Chiesa postridentina a debellare per secoli la violenza codificata del duello, usando l’arma delle prediche, delle leggi ad hoc e delle pratiche devote. Il legame fra Chiesa e declino del duello in Italia, provocava sprezzanti giudizi tra gli europei che mantenevano in auge l’esercizio dei combattimenti. I protestanti, in particolare, e i liberopensatori, sostenevano che l’aristocrazia italiana fosse stata femminilizzata dal servaggio politico e dall’influsso della Chiesa. Agli inizi dell’Ottocento fu la discesa delle armate francesi a reintrodurre la scienza cavalleresca con tutto il suo corpus etico­giuridico. Gli italiani arruolati nelle truppe napoleoniche ricominciarono a difendere l’onore privato o collettivo seguendo le regole del codice d’onore, impiegando la lama e la pistola. Così, la pratica del duello tornò prepotente, mentre l’opinione pubblica approvava il recupero della virtù guerriera nei nipoti dei cicisbei. I giovani potevano esprimere virilità e coraggio al servizio del nuovo patriottismo. Il comportamento cavalleresco in difesa dell’onore di una donna fu trasferito all’Italia, metaforizzata come nazione femmina, una donna bisognosa di protezione. Il ricorso al duello mondò così gli italiani dall’accusa d’essere infidi manovratori di veleni e stiletti. Tra gli artisti romantici, il ritorno del duello si sposò all’ideale risorgimentale e persino all’emancipazione religiosa. Duelli appaiono nelle opere di Rossini e Bellini e in molte opere di Verdi. I romanzieri, come Guerrazzi, Bazzoni, Pellico e D’Azeglio, riempirono le loro pagine di duelli legando la virilità coraggiosa al patriottismo. Non così il cattolico Manzoni, che lo bagnò d’una luce sinistra. La rappresentazione pubblica più riuscita di questo recuperato orgoglio si deve al letterato napoletano Gabriele Pepe, quando sfidò a duello Alphonse Lamartine, reo d’aver gettato sugli italiani il fango di quegli stereotipi. Pepe rappresentò con il suo coraggio le migliori doti cavalleresche italiane smentendo il francese, che fu costretto a scusarsi in pubblico. Dopo l’Unità d’Italia la 'duellomania' di deputati e giornalisti non ebbe più freni, forse perché gli accordi sottobanco e il trasformismo rendevano difficile per tutti tenersi immuni da sospetti. Il duello, combattuto per lo più all’arma bianca, divenne un’ordalia per lavare la propria immagine pubblica. Lo scotto fu pesante e i morti e i menomati si contarono a migliaia. Trafiletti in cronaca riportavano quotidianamente di giovani morti all’alba del matrimonio promesso, mentre la sposa attendeva ignara; di maturi padri di famiglia che perdevano la vita su un campo incolto per un’insinuazione sussurrata. L’acme della duellomania fu alla fine dell’Ottocento e un episodio, in particolare, ne divenne l’emblema: il 4 marzo 1898, in un giardino romano, Felice Cavallotti – pugnace deputato e giornalista – e il conte Ferruccio Macola duellarono all’ultimo sangue. Al suo trentatreesimo combattimento, Cavallotti soccombeva alla sciabola del più giovane contendente che aveva osato mettere in dubbio la sua integrità politica. Forse, in quel momento estremo, mentre agonizzava nel guardaroba della contessa Cellere, Cavallotti si pentì d’aver sempre regolato le sue dispute con la lama, d’aver difeso il duello come una pratica migliorativa della società, una «grande scuola di Civiltà», che educava ad affrontare di petto il male. Il duello Cavallotti-Macola ebbe sulla stampa del tempo un’eco straordinaria; non mise termine alla duellomania, che insanguinava l’Italia al ritmo di un combattimento al giorno, ma inaugurò una fase di ripensamento. Dopo la morte di Cavallotti la pratica del duello fu censurata quale retaggio dei tempi bui, di «medievali ordalie chiesastiche». In realtà i duellanti non erano in maggioranza nobili reazionari, sospettati di mantenere oscuri retaggi medievali, bensì individui emancipati, politici e giornalisti liberali, professionisti di fede socialista e garibaldina, come Cavallotti appunto, che coniugava ai Lumi le lame. Lo confermano anche le statistiche riportate da Hughes: la tragica duellomania che imperversò nella penisola sino agli inizi del Novecento fu un effetto della modernità laica. La Chiesa s’oppose sempre energicamente a quel violento costume, in età moderna come già nel Cinquecento, e i parroci di cent’anni fa elencavano fra i peccati mortali la terna di «suicidio, omicidio e duello». A questo influsso, certamente, si deve quel certo carattere nazionale che rifuggirebbe, come tendenza di base, alla violenza delle guerre, le 'inutili stragi'.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: