Pino Puglisi non è il primo prete ucciso dalla mafia. Dalla fine dell’Ottocento ad oggi ne sono stati uccisi altri, circa dieci, nelle diocesi di Palermo, Monreale e Caltanissetta. Tuttavia nelle precedenti uccisioni non era mai apparso evidente il motivo dell’esercizio del ministero pastorale in quanto tale. Erano uccisioni che apparivano consumate per questioni "private", familiari o personali, non per vendetta di fronte ad una pubblica presa di posizione contro l’organizzazione e il costume mafioso in nome del Vangelo e dell’insegnamento morale della Chiesa. Anche in questi due o tre casi che fanno pensare fondatamente a motivi legati alle funzioni pastorali degli uccisi, furono fatte circolare ad arte voci che indirizzavano le indagini della polizia verso motivi "personali", più o meno onorevoli. Il motivo pastorale, se ci fu, risultò così oscurato. Senza dire, ovviamente, di quei casi in cui, invece, ci sono elementi per pensare ad una forte forma di collusione mafiosa degli uccisi.Il caso Puglisi è, sotto questo aspetto, diverso e veramente nuovo. In primo luogo perché appare evidente che egli è stato ucciso per motivi legati alla sua attività di parroco in un quartiere popolare di Palermo dove la mafia esercita un’antica influenza. Un’influenza che egli consapevolmente ed attivamente cercava di contrastare con iniziative formative del suo ministero sacerdotale, indirizzate particolarmente ai ragazzi. E in secondo luogo perché la sua azione si presentava non come una forma solitaria o dissidente dell’esercizio del ministero sacerdotale ma come la realizzazione di un indirizzo pastorale voluto e incoraggiato dal vescovo della Chiesa diocesana e condiviso da altri sacerdoti - parroci e no - operanti con stesse finalità e metodi simili. Insomma, dietro la sua peculiare testimonianza di parroco, che deliberatamente mira a contrastare il peso della presenza mafiosa, sta la realtà di una Chiesa che, pur faticosamente, è venuta assumendo una posizione di rigetto di antiche inerzie e di più o meno gravi sottovalutazioni del fenomeno mafia.Ed è significativo che la morte di Puglisi sia giunta a pochi mesi di distanza dal forte grido di minaccia del giudizio di Dio per i mafiosi lanciato da Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento. Ma essa è giunta, soprattutto, dopo un travaglio di analisi, riflessioni ed anche polemiche sul tema della mafia che ha interessato e coinvolto diverse componenti delle Chiese di Sicilia, a cominciare dai vescovi, nell’ultimo quindicennio (compreso il dibattito di qualche anno fa sulla pastorale "antimafia" sì o no). Forse non misuriamo ancora l’importanza storica di questo travaglio che, pur con percorsi non lineari e attraverso comprensibili animosità, ha prodotto la maturazione di un nuovo e diverso atteggiamento delle Chiese di Sicilia verso il fenomeno mafioso. È certo semplicemente l’avvio di un nuovo cammino. Si dovrà ancora procedere lungo la via intrapresa. Ma la via è stata aperta. Ed è stata avallata e, per certi versi, promossa dallo stesso papa. Tutto ciò, in prospettiva storica, non è poco. Ed ora la morte violenta di Puglisi, che ha colpito la Chiesa siciliana nelle sue vive carni, sembra rendere irreversibile questo nuovo cammino.Il fatto poi che Puglisi non fosse un prete precedentemente distintosi per proclamazioni d’antimafia e non godesse di particolare notorietà sui mezzi di comunicazione, contribuisce ad esaltare la sua figura di parroco che esercitava, con modestia e semplicità, il suo compito pastorale. La morte per mano della mafia può colpire un parroco solo perché svolge con serietà e coerenza il suo ministero. Non è stato ucciso uno che cercava di mettersi in mostra. È questo un fatto che non può non scuotere la Chiesa siciliana e impegnarla, come mai prima d’ora, in una linea pastorale che non esiti ad essere ed anche dirsi "antimafia", non per scelte straordinarie o per riconquistare un perduto e compromesso ruolo sociale, ma solo per ordinaria e doverosa fedeltà al Vangelo. Il cardinale Pappalardo, in un’intervista a caldo, dopo alcune ore dall’uccisione di Puglisi, ha dichiarato: «Hanno ucciso un prete che faceva il proprio dovere e concepiva la missione evangelica secondo principi moderni. [Per lui] l’attività pastorale era anche promozione civile. Lavorava per strappare i ragazzi alla strada. Si era messo in testa di dare alla borgata le cose e i valori che mancano».Puglisi, dunque, esempio di una pastoralità "moderna", che cioè si lascia interpellare dai bisogni e dalle attese dell’ambiente e che, sempre in fedeltà al Vangelo e come proiezione del ministero ecclesiale, si apre a responsabilità civili. Significativamente Pappalardo, nella stessa intervista, ha aggiunto: «Dobbiamo continuare nel cammino intrapreso. Non ci sono altre strade». La pastoralità "moderna", consacrata dalla morte di Puglisi, appare ormai la via obbligata della Chiesa siciliana.