Giovanni Chiaramonte nasce a Varese nel 1948, ma i suoi genitori sono entrambi di Gela. La sua opera si genera nell’estetica teologica di Romano Guardini, Hans Urs von Balthasar e in quella della Chiesa d’Oriente incontrata in Evdokimov, Clément, Tarkovskij e ha come tema principale il rapporto tra luogo e destino nella civiltà occidentale. Tra le sue opere: Giardini e paesaggi, 1983; Terra del ritorno, 1989; Penisola delle figure, 1993; Westwards, 1996/2013; Milano. Cerchi della città di mezzo, 2000; In corso d’opera, 2000, Pellegrinaggi occidentali, 2000; Frammenti dalla Rocca, 2002; Abitare il mondo. Europe, 2004; Attraverso la pianura, 2005; Senza foce, 2005; Come un enigma. Venezia, 2006; Nascosto in prospettiva, 2007; In Berlin, 2009; L’altro. Nei volti nei luoghi, 2010; E.I.A.E. Et In Arcadia Ego, 2012; Via Fausta, 2012; Interno perduto, 2012, Piccola creazione, 2012, Westwards, 2014; Jerusalem. Figure della Promessa, 2015, La misura dell’Occidente. Viaggio nella rappresentazione, con Alvaro Siza, 2015. Nel suo percorso espositivo si segnalano le mostre personali alla Biennale di Venezia nel 1992, 1993, 1997 e 2004 e alla Triennale di Milano nel 2000, 2009 e 2011. Ha fondato e diretto collane di Fotografia per Jaca Book, Federico Motta Editore, Sei, Edizioni della Meridiana, Ultreya/Itaca. Insegna Storia e teoria della fotografia allo Iulm e alla Naba di Milano. C’è una luce di meraviglia che si irradia dalle foto di Giovanni Chiaramonte, uno dei maggiori fotografi italiani di paesaggio e architettura. Una luce che arriva da lontano. E va lontano. La luce dell’infinito che attraversa il senso di tutta la nostra esistenza. «La fotografia è una immagine di luce generata nel buio, immagine finita in cui si specchia l’infinito, immagine del visibile in cui si rivela il visibile», spiega Chiaramonte dichiarando un approccio che prima di essere artistico e fotografico, è teoretico. La sua è una scelta pensata, ragionata.
Il frutto di una “vocazione” spirituale. Una «continua ricerca di senso». Che nasce nel momento in cui si varca «la soglia della creazione»: «In quel momento noi diventiamo sguardo. E nello sguardo, attraverso il segno e la memoria, possiamo imparare a dare il nome a ogni cosa e a riconoscere la forma di ogni cosa. Sospeso tra la scena gloriosa e tremenda del visibile e il retroscena invisibile delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri, delle decisioni, l’io dell’uomo emerge misteriosamente come uno specchio duplice e ambivalente su cui, da una parte, si riflette l’oggettività infinita della realtà esteriore e dove, dall’altra parte e contemporaneamente, si proietta la soggettività infinita del mondo interiore». Così la fotografia, con il cinema e la televisione, suoi derivati, ha fatto della nostra epoca, per dirla con Heidegger, «l’epoca dell’immagine del mondo». La fotografia diviene specchio e memoria della realtà «nel mistero della sua complessità e totalità, nel segno dell’infinito che è inciso nell’anello della messa a fuoco di ogni obiettivo su ogni apparecchio». Uno sguardo sul mondo e sull’uomo. Chiaramonte cita Win Wenders: «La macchina fotografica è un occhio che può guardare nel contempo davanti e dietro di sé. Davanti scatta una fotografia, dietro traccia l’animo del fotografo: coglie attraverso il suo occhio ciò che lo motiva. Vede davanti il suo oggetto, e dietro il motivo per cui questo oggetto doveva essere fissato. Mostra le cose e il desiderio di esse». Un approccio che demolisce il pensiero di chi limita la fotografia alla semplice e meccanica azione dello schiacciare un pulsante. «C’è un
gap culturale e della critica ancora da colmare, purtroppo un Italia. Non c’è alcuna università in cui nell’insegnamento di storia dell’arte ci sia per statuto la storia della fotografia. Un errore e un deficit epocali. Anche perché invece, la fotografia è la prima arte a cui si avvicinano i giovani». Quello di Chiaramonte è un percorso di «realismo infinito»: il reale si rivela nell’istante che fissa l’evento e che dà senso alla vita dell’uomo nell’infinito. Nella pittura di Chagall o nel cinema dell’amato Tarkovskij, è chiaro come «nella dimensione del visibile, nulla mai si ripete allo stesso modo». La visione di Chiaramonte si forma già nei suoi esordi. Il primo tuffo giovanile, agli inizi degli anni Settanta, nella Sicilia delle origini (Chiaramonte è nato a Varese, da genitori di Gela), due mesi a girare con le sue Leica fotografando di tutto. La scelta qualche anno dopo, nel 1978, di lasciare il suo percorso professionale intrapreso nella cinematografia, per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. E le esperienze vissute con Luigi Ghirri, «alla ricerca dell’“originale perduto” nelle esplorazioni senza fine lungo la via Emilia osservando la realtà dal finestrino di una lentissima Volkswagen Maggiolino celeste». «Con Ghirri – continua – disquisivamo sui colori. Lui prediligeva le tinte sull’azzurro e sul verde. Gli piaceva il biancore. Non esisteva il giallo e il rosso». Per Chiaramonte le tinte erano invece altre. E sebbene non si sia fatto schiacciare da un
cliché, in realtà un colore emerge. È il “colore” della luce. La luce del «giallo Milano», quella che non ti aspetti dalla città meneghina, considerata a torto grigia e cupa. «C’è una città luminosa, sorprendente, che non ho certo inventato io. I suoi palazzi pubblici sono radiosi. Non è un colore costruito». Un giallo diverso da quello che fissa in Sicilia, ai confini del mare, fra «il calore del ritorno» e l’abbaglio di una terra che da culla della modernità ha visto scomparire gli dèi e si riduce a «disperata orizzontalità». C’è la luce di Gerusalemme, quella di uno dei suoi ultimi lavori,
Jerusalem (Libreria Editrice Vaticana, pagine 96, euro 35,00), in quel viaggio alle radici della nostra cultura cristiana: le tavole dei Comandamenti davanti a cui giocano le bambine di una scuola, un aquilone che si alza nel cielo di un parco nella festa della Repubblica, il ceppo di un albero sul luogo della battaglia combattuta nel corso della guerra del 1967, e poi il Muro del Pianto, la cripta del Santo Sepolcro e tanto altro. «Nel qui dove io ora sono, a proposito di Gerusalemme, come Tobia posso dire: “Generazioni e generazioni esprimeranno in te esultanza e il nome della città eletta durerà nei secoli”.
"Via dolorosa" a Gerusalemme (1988)Nell’immagine impressa dalla luce vive soltanto il tempo presente: come una profezia del Giudizio, la fotografia testimonia che non ci può essere nostalgia del tempo passato o paura del tempo futuro, perché nel dramma di ogni momento respira e si rivela come speranza l’istante perenne della memoria di Dio».
Jerusalem è il frutto di un lavoro realizzato nel 1988, “riscoperto” lo scorso anno dalla Galleria Ikona di Ziva Kraus, come inizio delle celebrazioni del 500° anniversario del Ghetto di Venezia. Una rassegna di foto contemporanea, attuale, nonostante il tempo trascorso. E poi c’è la luce dell’Emilia. Proprio quella Pianura padana, tra il Po e Modena, conosciuta con Luigi Ghirri negli anni Settanta. «Ero con lui nell’azzurro crepuscolo invernale davanti alla canonica di Cittanova immersa nella radianza del cielo illuminato dalla luna piena. “Sa- rebbe bello morire in un posto così”, mi disse scattando la foto, e in un posto così Luigi ci è morto davvero, nella grande casa attaccata alla canonica di Roncocesi. Da allora, da quel giorno di San Valentino del 1992, non ero più riuscito a fare una sola immagine in quei luoghi, fino al giorno del terremoto, vent’anni dopo». La mattina della seconda tremenda scossa, davanti alle immagini delle rovine che s’illuminavano da un grande televisore in un’antica casa di Cesena, «ho capito che valeva anche per me quello che aveva scritto Gabriel Garcia Màrquez: “Non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sotto terra”. Davanti al telegiornale ho sentito Luigi morire un’altra volta e questa volta definitivamente, perché in quel momento era caduta definitivamente anche la scena del mondo che lui aveva amato e in cui aveva vissuto e fotografato». Dopo due giorni, Chiaramonte si è messo a percorrere le campagne tra Cavezzo, Concordia, Camposanto, San Felice, Crevalcore, «nella speranza di trovare posti capaci di testimoniare la ragione viva di un paesaggio in cui e per cui valesse ancora la pena di vivere e morire». «Il senso del viaggio – argomenta, spiegando
Interno perduto. L’immanenza del terremoto (Franco Cosimo Panini, pagine 128, euro 30) – ha preso subito una direzione opposta a quella che muoveva allora me e Ghirri, tesi alla ricerca di una nuova rappresentazione dell’esterno. Come una tragica metafora della civiltà contemporanea, i crolli degli edifici hanno sepolto e reso impraticabile l’interno: la dimensione in cui l’uomo può rientrare in se stesso e lì trovare la propria verità. Nelle mie fotografie, una luce d’oro s’irradia dalle macerie della canonica di Cavezzo, come dai mattoni crollati del Duomo di Mirandola, una luce che sento sgorgare dalla devozione alla forma e alla figura d’amore che ha creato e redento il mondo e in cui, generazione dopo generazione, sono state edificate le case e le chiese lungo la Via Emilia: una luce che, nell’interno perduto, s’irradia dall’originale ritrovato». Così quelle macerie raccontano una speranza «visibile». L’atto di fede di Chiaramonte, nel divenire infinito.