giovedì 5 giugno 2014
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Il caso è reale, e sembra un esperimento etico costruito sul campo. Un cittadino svedese, chiamato Oscar, è stato per molti anni un convinto attivista del movimento vegano, il quale intende rispettare ogni forma di vita animale bandendo dall’alimentazione umana tutti i prodotti che non provengano esclusivamente dal regno vegetale (latte compreso). A 75 anni Oscar ha avuto la sfortuna di ammalarsi di Alzheimer fino a essere ricoverato in una struttura specializzata per i dementi gravi, pazienti che perdono progressivamente la memoria e le altre funzioni cognitive. In continuità con le sue abitudini precedenti e per volere della moglie, all’ospite sono serviti pasti rigorosamente vegani. Un giorno, tuttavia, a Oscar viene offerta per errore una porzione di polpette al sugo che divora di gusto, cosa che gli fa anche notare per la prima volta come a lui vengano dati piatti diversi da quelli degli altri. Da quel momento Oscar si rifiuta di mangiare la verdura che gli è proposta, mettendo nell’imbarazzo gli operatori, divisi tra la volontà di accontentare il paziente e le richieste della moglie, secondo la quale il marito "voleva" mangiare vegano e solo la malattia l’ha distolto da un proposito ben meditato. La vicenda, pubblicata due anni fa in un volume collettaneo, Practising Social Work: Ethics Around the World, e in questi giorni rilanciata dalla Rivista del lavoro sociale, ha suscitato una serie di riflessioni etiche circa l’autonomia e il trattamento da riservare ai soggetti fortemente menomati nelle proprie capacità intellettive. Il comitato etico chiamato in causa ha infine deciso di assecondare la "scelta" di Oscar a favore della carne. Qualche ulteriore riflessione è sicuramente possibile, al di là delle bizzarre tesi che qualcuno ha sostenuto circa la presunta dimostrazione che l’opzione vegana è contro natura e che Oscar ha espresso la sua "vera" preferenza per le polpette, il cibo che "davvero gli piace". Certamente, a molti vegani la carne piace, come piacerebbe il sesso a un monaco eremita, ma ovviamente si tratta di una banalità che nulla ci dice sulle scelte compiute per ragioni diverse dal piacere che ci danno i sensi e sulle capacità richieste per compierle e conservarle. La domanda chiave è: nel nostro sforzo di rispettare quanto più possibile un paziente con demenza, dovremmo dare priorità alle preferenze e agli atteggiamenti che manifestava prima di ammalarsi o seguire gli interessi che la persona esprime correntemente? Due posizioni si confrontano. Secondo la prima (sostenuta ad esempio da Rebecca Dresser), bisogna rispondere alla prospettiva che i malati intrattengono nel momento considerato, dato che i loro precedenti scopi e valori non possono più essere loro di giovamento; quindi, in questo caso, Oscar si goda almeno le polpette. Al contrario, l’altra prospettiva (difesa da Ronald Dworkin) ritiene che soltanto i desideri espressi nel momento in cui i pazienti avevano piena autonomia abbiano rilevanza. L’idea di Dworkin è che per sviluppare quelli che egli chiama critical interests (ovvero scopi generali anche esterni alla autorealizzazione: il benessere dei figli, il risultato del proprio lavoro a favore della comunità), contrapposti agli experiential interests (legati alla soddisfazione personale momentanea), serva una capacità di vedere la propria vita in modo unitario, con il passato legato al presente e una proiezione nel futuro, capacità che gli alzheimeriani perdono. Essi, privi di questa condizione di autonomia, non possono generare nuovi critical interests. L’autonomia da tutelare risiede quindi negli impegni assunti dai malati in precedenza, quando disponevano delle condizioni abilitanti necessarie. Pertanto, sarebbe giusto continuare a proporre a Oscar solo una dieta vegana. Ma una via diversa è stata recentemente proposta da Agnieszka Jaworska, la quale muove anche dalle risultanze neurobiologiche per contestare alcune assunzioni di Dworkin circa l’autonomia delle persone colpite da Alzheimer. Sembra infatti lecito fare riferimento a un’altra concezione di autonomia, meno esigente, nella quale i malati di demenza continuano a possedere le funzioni mentali abilitanti, in base alla quale sono in grado di generare nuovi critical interests. Polpette sì, polpette no diventa allora una questione "empirica", di valutazione delle residue capacità di esprimere valutazioni da parte del malato, di giudicare valori come positivi e giusti e di aderire a essi, sapendo dare qualche ragione per la loro preferibilità. Un esempio è la paziente che non sa dire che giorno sia né quanti anni abbia, ma si offre volontaria per esperimenti con la motivazione che in quel modo contribuisce ad aiutare il prossimo. Quest’ultima non appare una capacità che necessiti della consapevolezza complessiva della propria vita, sebbene implichi una certa coerenza tra atteggiamenti di fondo. Sono le stesse risultanze delle analisi biopatologiche a permettere tale distinzione. I primi stadi di evoluzione dell’Alzheimer colpiscono selettivamente l’ippocampo, regione cerebrale decisiva per i processi di memoria, con una perdita degli avvenimenti recenti, mentre i ricordi del passato più lontano rimangono stabili. Se l’amnesia spezza la continuità narrativa dell’esistenza, altre zone del cervello sono inizialmente risparmiate e non impediscono l’adesione emotiva a specifici corsi d’azione. La capacità di esprimere adesione a un valore come base per i propri desideri, come giudizio di che cosa è corretto e appropriato per sé, può essere dunque considerata la base per l’autonomia da concedere agli alzheimeriani. Nella situazione specifica sarebbe stato da verificare se Oscar avesse avuto, anche in modo implicito o ellittico, la capacità di articolare la propria preferenza per la carne rispetto alle verdure. E, forse, anche un ormai semplice esame per valutare lo stato di atrofia delle diverse aree cerebrali avrebbe aiutato la valutazione del comitato etico. Se il paziente non è più in grado di esprimere alcuna ragione che non la semplice scelta "perché mi piace", si avrebbe motivo di ritenere che sia nella condizione di un wanton, come Harry Frankfurt definisce chi ha solo desideri di primo ordine, cioè sregolati e soddisfatti in modo irresponsabile. Molti seguono le proprie passioni senza riflettere, ma hanno anche la possibilità di esercitare desideri di secondo ordine, cioè di volere in modo meditato quello che a loro naturalmente piace. Forse Oscar aveva perso quella possibilità: la carne gli piaceva, ma non possedeva più la capacità di dirsi – e dire – che non voleva mangiarla per risparmiare sofferenza agli animali. Servirgli le polpette non è forse stato il miglior modo di rispettarlo come persona.
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