Ottantotto anni appena compiuti, una cinquantina di album e centinaia di collaborazioni, ora anche un bel libro (scritto con Pierluigi Sassetti per Arcana Jazz) intitolato con ironia Sarò Franco. Perché non c’è ombra di autocompiacimento o alterigia, nella gentilezza dolce ed elegante di Franco Cerri, il più grande chitarrista italiano, uno dei padri nobili del jazz nostrano e non solo, creatore di una lingua chitarristica personalissima, comunicativa, nitida. Ma Franco è tale di nome e di fatto se parla di musica, educazione, no alla droga, del figlio e dell’Oltre: si schermisce invece se gli si fanno i complimenti per il libro (da consigliare agli aspiranti artisti che tutto studiano tranne che etica), per le sue composizioni, per l’aver suonato con Chet Baker, Django Reinhardt, Billie Holiday, Dizzy Gillespie, Barney Kessel, Gerry Mulligan. Provate, a fare a Cerri un complimento. Il massimo che vi concederà è un "Sì, ho fatto delle cose simpatiche". Ma forse è inevitabile: anche l’umiltà, del resto, fa parte delle doti dei grandi.Il suo libro parte citando Wittgenstein: alla gente non viene mai in mente che anche musicisti e poeti possano insegnare qualcosa. Lei cos’ha da insegnare?«No, mi sentirei un bullo se usassi quel verbo. Vede, ai ragazzi io parlo. Racconto come ho capito certe cose. Subito dopo la guerra suonavo nei cortili per far ballare, si stava tornando a vivere. Una sera venne Kramer e volle suonare con me: stavo per svenire… Quando lo reincontrai non volevo farmi avanti, fu lui a chiamarmi: e i miei pensavano fosse un mio scherzo. Finché al Teatro Colosseo non mi videro in scena con lui, i Cetra, Natalino Otto… Sono un autodidatta fortunato, e non dimentico l’emozione di quando, già ragazzo, per la prima volta entrammo in una casa col gabinetto dentro, e non sul ballatoio».Però qualche responsabilità la sente, sul palco?«Il comportamento, certo. L’educazione. Vede, io ho ancora paura, del palco. Proprio perché non basta salirci e suonare. Occorre rispettare chi c’è con te, ascoltare la gente, accontentarla, rispettarla. Dialogare. Per questo dal vivo eseguo poche cose mie, preferisco gli standard, Ellington, Kern, Mancini…».Oggi per chi fa musica è meglio o è peggio di quando lei ha iniziato?«Subito dopo la guerra ci furono opportunità immense. Dopo subentrò la politica: e i politici non hanno mai fatto nulla perché la popolazione crescesse, nulla per avvicinare il popolo alle arti. Sa, ho anche pensato di trasferirmi al Nord Europa, quando ho visto che peso diverso ha l’arte in certi Paesi».Lei nel libro dice che l’arte è profondità, lo spettacolo apparenza. Quindi non tutti i musicisti fanno arte, alcuni fanno solo spettacolo…«Arte è un’altra parola da dire con rispetto. Il tentativo di farla però ci deve essere. Senza prendersi troppo sul serio, semmai».Di grandi ne ha conosciuti tanti: i migliori?«Ricordo Jim Hall che ogni volta che veniva in Italia mi chiamava. O Barney Kessel a Torino, a disposizione degli studenti. E una notte in un locale, quando arrivarono Ray Brown e Oscar Peterson sul palco: io volevo alzarmi, loro vollero continuassi a suonare con loro. I veri grandi non sono presuntuosi».Però molti sono finiti male. Lei come ha resistito alla droga e alle tentazioni dell’ambiente?«Io sono felice di non aver mai neanche fumato. Una volta a Modena Chet Baker disse ad altri colleghi "Franco non ha mai preso niente!", e tutti risero: inizialmente mi vergognai, poi ho pensato che in fondo la brutta figura la facevano loro, non io».Scrive che la musica aiuta a invecchiare. Perché? «Quando ami un’arte è una medicina magnifica. Anche se non lo sappiamo, perché non è nelle scuole…». La musica la aiutò, quando morì suo figlio?«Sopravvivere a qualcuno che hai tenuto in braccio è assurdo. Suonavamo anche insieme, con Stefano. La musica mi ha aiutato perché è anche lavoro, per me. E se non avessi avuto impegni da rispettare non so in quanto tempo e come sarei riuscito a pensarci meno. Anche perché senza la musica sarei stato muratore, o fattorino… Ma la musica è un’altra cosa, decisiva».Ha avuto anche una fede che l’ha aiutata?«Ho fatto il chierichetto, ma soprattutto credo ci debba essere Qualcuno sopra di noi. Per forza. Basta guardare la natura. E mi ha aiutato, sì: anche se non mi sono mai rivolto a Lui per chiederGli qualcosa».Cosa pensa di sé Cerri a 88 anni, oltre 50 di musica?«Sono felice di suonare ancora, di camminare, di pensare, di comporre. Malgrado per suonare debba prendere antidolorifici per le mani. Forse mi manca solo di raccogliere tutte le mie composizioni».In quanto da lei scritto, dov’è il meglio?«Forse nel disco Cerrimedioatutto. E in Moses Ballad, temino dedicato a un cane cui volevamo molto bene. Sì, forse sono le cose mie più simpatiche…».
A colloquio con il grande chitarrista italiano che in un libro racconta il suo modo di fare musica. Fra ricordi di grande jazz e l’amarezza per tanto spettacolo di pura apparenza
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: