Don Armando Matteo
Difficile dire se sia nato prima l’uovo o la gallina, ma è comunque certo che «quella del baby boom è la generazione della rottura, quella che per amore della giovinezza ha inventato un nuovo senso dell’essere adulti. Così che chi è nato indicativamente fra il 1946 e il 1964 ha fatto della giovinezza il senso della vita incatenandosi al mito del giovanilismo». Il risultato è che questi eterni bambini non sono capaci di educare, cioè di far diventare adulti i bambini.È l’analisi spietata che don Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale all’Urbaniana, pone alla base del suo ultimo libro L’adulto che ci manca (Cittadella, pagine 114, euro 10,90). Un efficace pamphlet sull’incredibile situazione per la quale nella società contemporanea i giovani si sentono orfani degli adulti e gli adulti si sono votati a condurre un’esistenza per la quale la massima ambizione è quella di sembrare giovani il più a lungo possibile. «Così, se qualcuno muore a 70 anni si dice: “È morto giovane!”. E a un trentenne che cerca lavoro o a un cinquantenne che vorrebbe finalmente avanzare in carriera si risponde di avere pazienza che in fondo sono ancora giovani». Paradossi che investono anche il modo in cui si vive e si trasmettere il Vangelo, come ben evidenzia il sottotitolo del libro di Matteo: Perché è diventato così difficile educare e trasmettere la fede.
Ma perché la fascia temporale 1946-1964?
«L’indicazione si deve a Zygmunt Bauman in Vite che non possiamo permetterci (2011). Nei fatti si tratta della generazione che in pochi anni è passata dall’avere nulla all’avere tutto, attraverso cambiamenti tecnologici e culturali che, oltre ad allungare l’aspettativa di vita, hanno prodotto un senso di fiducia nel fare e di euforia nel vivere la propria giovinezza che ha finito per incarnarsi nel mito del giovanilismo a tutti i costi. È la generazione del ’68 e del ’77. La generazione che ha sganciato il concetto di libertà da ogni vincolo, anche da quelli che nascono dall’umanità stessa, come la fragilità, la malattia, il dolore, la morte. La generazione degli eterni giovani, di chi non vuole invecchiare perché ha riposto nelle capacità prestazionali della gioventù tutte le proprie aspettative. Non è un caso che proprio in questi anni si siano espansi e consolidati (al di là di ogni logica) miti letterari come quelli di Peter Pan e del Piccolo principe...».
Tutto questo si è tradotto nel venir meno della capacità di educare?
«Per queste persone il modello di vita riuscita è quello giovanile. Non hanno compreso che la giovinezza è una stagione della vita che deve condurre all’essere adulti. Come possono insegnare ai giovani che c’è qualcosa oltre la giovinezza per la quale vale la pena di impegnarsi a costruire se per loro non c’è nulla di meglio che essere giovani?».
E il malessere giovanile cresce e non viene compreso...
«L’idea di fondo è che se sei giovane non ti manca nulla. La giovinezza è la grande macchina della felicità. E allora come si fa a essere giovani e infelici? Messe di fronte a qualche episodio di disagio giovanile queste persone si preoccupano per un attimo, poi tornano ad avvolgersi nella coperta del giovanilismo».
Nascono da qui le problematiche giovanili denunciate nel suo libro precedente: “La prima generazione incredula”?
«I giovani si sentono superflui, sentono di vivere in una società che non ha bisogno di loro. E questo va contro la verità della giovinezza, che è forza, che è novità, che è come una cellula staminale che porta in sé la necessità di divenire. Se questo processo non viene messo in moto, quella forza e quella novità ricadono su se stesse. Come si può confidare in una società che tiene le energie migliori nel freezer. E non si tratta di un nodo politico, ma di un nodo culturale... Ce lo dice anche la radice latina della parola giovani, che viene da juvare, essere d’aiuto, contribuire. Mentre i greci usavano la parola neos, cioè nuovo».
Questo ragionamento vale anche per l’incapacità di trasmettere la fede?
«I giovani nati dopo l’81 (lo dicono le ricerche più recenti) faticano a capire a che serva la fede una volta che si è diventati grandi, proprio perché negli adulti la fede non è vissuta come momento essenziale, come fonte di pienezza e di felicità. Come mi posso interrogare sulle cose ultime se bisogna vivere facendo finta che le esperienze fondanti dell’essere umano (cioè la sofferenza, la fragilità, la morte) non esistano? L’essere umano è fondato sulla consapevolezza della “mancanza” e la felicità viene dall’accettazione serena di questa situazione, che ci apre agli altri e ci apre a Dio».
Insomma, niente genitori niente fede?
«Nei documenti della Chiesa si sostiene da oltre un decennio che bisogna ripartire dagli adulti. Bisogna rievangelizzare l’“adultità” affinché essa mostri il suo profilo migliore, la sua capacità di educare a costruire quel futuro che gli adulti attuali sembra vogliano tenere tutto per sé».
Gli adulti ricomincino a fare cose da adulti, dunque?
«In fondo è la richiesta pressante che viene dal mondo giovanile. La confusione degli adolescenti (e non solo) nasce dall’assenza di “adultità”, che è la madre di tutte le crisi contemporanee: edonismo fine a se stesso, denatalità, identità maschio-femmina, identità padre-madre... Ed emerge chiaro anche in una parte della letteratura recente come, per esempio, in Acciaio di Silvia Avallone, in 30 acrilico 70 lana di Viola Di Grado, in Io e te di Niccolò Ammaniti o nei libri di D’Avenia. Se non si rispetta il “legame d’onore” che lega le generazioni ci si consegna al mercato, a un futuro inconsistente da Peter Pan o da Piccoli principi».